Provate, anche solo per un attimo a mettervi nei suoi panni. Siete una delle combo guards migliori dell'intera lega, con medie (24.3 punti, 7.3 assist, 4.3 rimbalzi, 1 recupero e il 42% dal campo) che, non più tardi di un lustro fa, fruttarono l'MVP a Derrick Rose. Il tutto in una squadra che avrebbe dovuto passare i porssimi anni a ricostruire sulle macerie lasciate da LaMarcus Aldridge e che, invece, si trova in piena corsa per i playoff nel Wild Wild West. Ovviamente grazie a voi, che non avete mai smesso di mantenere ciò che prometteste quel giorno di due anni fa al Moda Center:

Ma, oggi come allora, tutto questo (e molto altro) non basta. Non è mai bastato e, probabilmente, mai basterà. Perché se vi chiamate Damian Lillard e dall'inizio della vostra carriera Nba non fate altro che dimostrare continuamente di essere ciò che già si è (vale a dire un FENOMENO senza se e senza ma) lottando contro pregiudizi e preconcetti assurdi, è facile intuire come e quanto il destino sia stato ingiusto con voi.

Perché va bene la sfiga di vivere nell'epoca dei vari James, Durant, Curry e Harden, ma l'underrating che avvolge il numero 0 dei Blazers è uno dei misteri meglio custoditi al di là dell'Atlantico. Difficile, infatti, ricordare in tempi recenti un giocatore del genere che debba chiedere, quasi supllicando, di far parte di qualcosa che gli spetterebbe di diritto (l'inclusione tra i 30 che si giocheranno un posto per Rio) o, ancora, che venga escluso dalla gara delle stelle quando, più e più volte, la stella più lucente è proprio la sua.

Non c'è da stupirsi, quindi, che abbia approcciato così contro la Golden State che tremare il mondo fa:

51 punti (massimo in carriera), 18/28 dal campo, 9/12 da tre (in faccia a Steph!) più 7 assist, 6 recuperi e 0 (ZERO) palle perse in poco più di 30 minuti di impiego: primo giocatore della storia a realizzare almeno 50 punti, almeno 5 assist e almeno 5 recuperi contro la squadra campione, nonché primo dai tempi di Michael Jordan (1996) a scrivere 50 e 6 recuperi tirando con il 64% dal campo e primo con 50, 7 assist e nessuna palla persa dal 1992, quando ci pensò Reggie Miller ad aggiungere lustro a leggenda. Non la prima e certamente non l'ultima prestazione di questo tipo da parte di un giocatore che si è preso una franchigia ad anni 26.

Numeri spaventosi e che rendono meglio di tante parole l'idea di ciò che il ragazzo di Oakland (guarda tu il caso) è costretto a fare quasi ogni sera per urlare al mondo la sua presenza. Anche se non ne avrebbe bisogno: 19, 6.5 assist e poco più di tre rimbalzi nell'anno da rookie, 20.7, 5.6 e 3.5 in quello successivo, 21, 6.2 e 4.6 la stagione scorsa. Quella che avrebbe dovuto essere l'ultima dei Blazers a discreti livelli. E che, invece, è servita da trampolino di lancio per un futuro (individuale e di squadra) molto più roseo di quanto si potesse immaginare.

Sembra quasi, fatte le ovve e debite proporzioni, di assistere a quanto già accadde per Allen Iverson: "48 minuti giocati al massimo ogni sera per vendicare una vita di ingiustizie", con una rabbia, una determinazione, una furore agonistico con pochi eguali in qualsiasi sport praticato a qualsiasi livello e a qualsiasi latitudine. Nella speranza che, prima o poi, si riesca a cambiare questo destino cinico e baro che lo vede sottovalutato sempre e comunque, senza motivazione apparente.

Ma forse non vale nemmeno più la pena interrogarsi sul perché di tutto questo: vederlo lì, sul parquet, giocare a questi livelli spinto dalla voglia di far cambiare idea a chi ancora non crede in lui è uno degli spettacoli per cui vale ancora la pena pagare il prezzo del biglietto o restare in piedi fino a tarda notte.

"Because it's always Lillard time!"