Guardassimo ai numeri, il confronto sarebbe ancor più ingeneroso di quanto già non sia. Ma, in fondo, dati e statistiche sono solo una parte del problema. Probabilmente la meno importante. E' una questione di adattabilità, di appartenenza o meno ad un contesto cestistico in base alle proprie attitudini tecniche e psicologiche. Soprattutto se questo contesto ti chiede uno sforzo mentale notevole per competere, sera si sera no, contro i migliori giocatori del mondo.

Ecco la differenza, nella carriera e non solo nel momento storico attuale, tra Danilo Gallinari e Andrea Bargnani sta tutta qui. Nell'essere più o meno adatti alla pallacanestro Nba a, rispettivamente, otto e dieci anni dall'entrata nella lega. E non è necessario riferirsi al movimento popolare, nato spontaneamente sul web, che vuole portare Danilo all'All Star Game di Toronto, per capire chi è che davvero ce l'ha fatta. 

Toronto. Là dove tutto è cominciato. Un caso, o forse no. Sta di fatto che la città che potrebbe vedere l'ex Olimpia investito dello status di star Nba, è la stessa che, nel luglio del 2006, sceglieva con la prima chiamata assoluta del Draft il figlio prediletto della Roma cestistica. Primo europeo di sempre ad avere l'onore di essere chiamato per primo dal commissioner David Stern nell'atto ufficiale di inizio della stagione. Le legittime aspettative (tante) vengono però deluse con il passare delle stagioni. Certo che un lungo di 2,13 che tira da fuori con quella naturalezza è un lusso che in pochi possono permettersi: ma, altrettanto in pochi, possono permettersi di avere a roster un lungo di 2,13 incapace di farsi valere nel pitturato senza pagare dazio. E' una questione di monodimenzionalità del suo gioco, di perenne e cronica difficoltà a rimbalzo, di mancanza della necessaria concentrazione e personalità. Da questa parte dell'Atlantico o evolvi come giocatore e come uomo oppure non ce la fai, per quanto dotato tu possa essere: soprattutto in contesti tecnicamente rivedibili e dalle prospettive incerte come Toronto, New York, Brooklyn.

Gallinari (e, prima di lui, Marco Belinelli) questo aspetto l'ha intuito subito. E ci ha lavorato sopra. Fin da quando, nel 2008, la sua chiamata alla numero 6 da parte dei Knicks, venne accolta dai fischi dei sodali di Spike Lee presenti al MSG la sera del Draft. L'essere un 2,08, fisicamente predisposto e con fondamentali da guardia ha aiutato e non poco: ma l'aspetto che ha sempre colpito di più nella crescita esponenziale di Danilo è stato proprio quello della durezza mentale, della convinzione di appartenere a questo contesto, facendo di tutto per continuare a meritarlo giorno dopo giorno. E le prestazioni, anche nella miglior stagione della carriera, che arrivano di conseguenza: una prima metà di gennaio a 25.8 punti e 6.4 rimbalzi di media (3.2 e 1.4 per Andrea, con lo stesso numero di partite giocate ma con 30 minuti in meno) che sta giustificando il nazionalismo dell'Italia cestistica che lo vorrebbe alfiere tricolore nella serata delle stelle.

Bargnani, invece, è all'ennesimo bivio della sua esperienza americana, penalizzato anche dalla confusione e dagli stravolgimenti che, nelle ultime ore, hanno travolto il front-office dei Nets: provare a rilanciarsi con il nuovo coach oppure scegliere di tornare (adesso o a fine stagione cambierebbe poco) in Europa, magari accettando il corteggiamento di quell'Olimpia Milano che lo vorrebbe affiancare ad Alessandro Gentile. La stessa Olimpia Milano in cui si è affermato Danilo Gallinari.

Perché sarà pur vero che le loro carriere assomigliano tanto a due rette parallele destinate a non incontrarsi mai. Ma è altrettanto vero che i punti in comune sono molti di più di quel che sembrano. Da Toronto a Toronto passando per Milano e New York: ce n'è abbastanza da scriverci una canzone di successo. Altro che Giusy Ferreri e Roma-Bangkok.