Per un atleta, soprattutto se si tratta di un grande atleta, conta tutto. E quindi non solo il gesto tecnico ma anche il contesto che ruota intorno a quel gesto. Soprattutto in quei momenti di profonda solitudine quando il campione, quello con la C maiuscola, sta per esibirsi in qualcosa di speciale, qualcosa che sfugge all'umana comprensione di compagni e avversari e, molto spesso, anche alla sua. In quel momento conta enormemente come il campione si senta, mentalmente, fisicamente, a livello di motivazioni. Se, nel profondo, non sta bene, allora farà la cosa più ragionevole, più conservativa, più prevedibile, unendosi in una logica di gioco uguale per tutti, alla ricerca di quelle sicurezze che non ha più; se, invece, è in pace con se stesso e con il mondo che lo circonda, allora preparatevi ad assistere a qualcosa di unico, ad aspettarvi l'inaspettato, ad applaudire l'ennesima prodezza che non credevate possibile.

Fatta questa preliminare e necessaria considerazione, arriviamo al punto che ci interssa: Kobe Bryant. Il cui inizio di regular season tutto è stato fuorché improntato alla serenità d'animo. Il continuo susseguirsi di voci su un ritiro non ancora annunciato ufficialmente, la voglia di dimostrare di essere ancora il 'Black Mamba' di sempre nonostante due stagioni praticamente non giocate a causa degli infortuni, il bisogno (poi disatteso) che i Lakers tornassero a fare i Lakers con e grazie a lui, mentore e chioccia dei vari Russel, Randle e Clarkson. Francamente troppo per un trentasettenne sul viale del tramonto, al netto di un'etica del lavoro e di un'applicazione (dentro e fuori dal campo) spaventose. Con le difficoltà che si sono inevitabilmente riverberate sul rendimento complessivo, personale e di squadra. 

Nelle prime 13 partite (record 2-11), Kobe ha disputato 31.1 minuti a gara con medie che, per usare un elegante eufemismo, non hanno reso assolutamente giustizia all'immagine del giocatore che fu. Ma se, in qualche modo, i 15.5 punti, 4.1 rimbalzi, 3.4 assist potevano essere giustificati dalla prolungata assenza in un contesto ultra competitivo come l'Nba moderna, non cosi le percentuali di tiro: 30.5 % dal campo (20.2% da tre punti), poco più di 5 canestri ogni 17 tiri tentati (1 ogni 6 da dietro l'arco).

Un pianto, per tifosi e addetti ai lavori, tutti uniti dal profondo dispiacere nel vedere una simile leggenda ridursi così nella vana ricerca di sé stesso.

Almeno fino al 30 novembre scorso. Quando il 24 fu 8 ha annunciato al mondo che si, effettivamente questa sarà la sua ultima stagione da giocatore di basket professionista. Basta inseguire un fantasma, basta cercare di tornare chi non si è più, basta cercare di soddisfare aspettative impossibili per la tua nuova condizione fisica e mentale. Basta imporre ad un corpo che non ne può più gli stimoli di una mente perennemente votata alla competizione estrema.

E, paradossalmente (o forse no), con questa presa di coscienza dei limiti che nemmeno uno come lui può valicare, Kobe Bryanta ha ripreso a giocare da Kobe Bryant. O, almeno, dal Kobe Bryant trentasettene con due infortuni gravi alle spalle. Nelle nove apparizzioni successive alla dichiarazione d'addio, il 24 ha visto crescere tutte le proprie statistiche: meno minuti (30.2) ma più punti (17.9), rimbalzi (4.2) e assist (3.6) e, soprattutto, migliori percentuali dal campo (36.5 complessivo, 29.6 da tre) con 6.3 canestri ogni 17 tiri.

Certo non sono numeri da 'vero' Bryant nemmeno questi. Ma come lui ha imparato ad accettarsi per quello che è adesso, dobbiamo imparare a farlo anche noi che ne analizziamo i movimenti fiaccati da oltre vent'anni di Nba al massimo livello. Sempre, comunque e contro chiunque, senza risparmiarsi mai. E valga, più di tante parole, la simpaticissima reazione del diretto interessato quando, qualche settimana fa, un giornalista gli ha fatto notare in press conference che in quella partita aveva tirato con il 50% dal campo.

In fondo, però, numeri, cifre e shot charts sono gli ultimi dettagli di cui ci dovremmo curare da qui ad aprile. Perché gli ultimi mesi di Kobe Bryant su un parquet non possono essere ridotti a mere questioni di freddi dati statistici. Sono un dono, gli ultimi lasciti di un campione senza tempo. Che ha dovuto arrendersi (come tutti) nell'eterna lotta con Chrono, ma che lo ha fatto alla sua maniera. Dando tutto fino all'ultimo, pur con le limitazioni di un fisico che non risponde più presente. Anche in una versione che potrà non piacere a tutti, lui per primo.

E per fare una cosa del genere ci vuole tanta ma tanta forza e tanto ma tanto coraggio.