Quando si parla di record NBA due sono le squadre che ubbidiscono al principio dei corsi e ricorsi storici di Giambattista Vico: i New York Knicks e i Philadelphia 76ers. Addirittura, in un’occasione, protagoniste lo stesso giorno, nello stesso momento, sullo stesso parquet: era il 2 marzo del 1962 e a Hershie Pennsylvania tal Wilt Chamberlain (ri)scrisse per sempre la storia del gioco mettendone a referto 100 (con un per lui inusuale 28/32 ai liberi) proprio contro i Knickerbockers.
Ma quando parliamo di record, non sempre facciamo riferimento all’accezione positiva del termine. Anzi, nel caso dei (non sempre) figli prediletti della città dell’amore fraterno è spesso capitato di entrare nella storia dalla parte sbagliata, pur potendo vantare tre titoli in bacheca e l’aver dato i natali cestistici a gente come lo stesso Chamberlain, Julius Erving, Charles Barkley, Allen Iverson. Perché il Record negativo per eccellenza dimora proprio da quelle parti, da una quarantina d’anni abbondanti. Più precisamente dalla stagione sportiva 1972/1973 quando si manifestò il miracolo alla rovescia dei ‘Philadelphia SeventySickers’: 82 partite di regular season, 9 vittorie e 73 (SETTANTATRE) sconfitte. Una roba mai vista prima e che non dovrebbe mai più vedersi neanche dopo.
Occhio, però, al condizionale. Phila ci riprova: un inizio di stagione da 0-16 che va di poco sopra all’1-15 di quelli del ’73. Un ‘mettersi in ritmo’ con la leggenda che in molti si sarebbero volentieri risparmiati. C’è modo e modo di offuscare le imprese (quelle si) degli attuali Golden State Warriors: e questo non è certo quello che vorrebbero i tifosi di una delle città più dure d’America, che si ritrovano ora catapultati in una barzelletta che fa ridere tutti meno loro. Ma è davvero possibile ripercorrere le gesta di quei ‘Sickers’? Si e no. I tempi sono cambiati: altra Nba, altro basket, altri giocatori. E pur nell’epoca dello sdoganamento del tanking selvaggio, difficilmente si riuscirà nell’intento di perderne meno di dieci. Anche volendo farlo apposta.
Dal punto di vista tecnico, tuttavia, pur in contesti tecnicamente diversi, si tratta(va) di due squadre molto simili: ugualmente deboli e prive di significativa programmazione (nonostante i Sixers di oggi abbiano spesso messo le mani su alcuni dei migliori prospetti degli ultimi draft) e ugualmente affidate ad un allenatore che sembra messo lì per caso. Anche se dubitiamo che Brett Brown abbia avuto lo stesso approccio del leggendario coach Rubin, che sancì con un primo memorabile discorso alla squadra, l’inizio della fine. Discorso di cui Federico Buffa, ha riportato il passaggio più significativo nel suo memorabile Black Jesus. E da li peschiamo: «Attenzione figlioli, non so come siate stati abituati in passato ma con me non si scherza. Niente se e niente ma. La parola chiave è disciplina, chiedete pure a quelli che ho allenato per 11 anni a Long Island University. […]Dimenticate anche solo l’ipotesi delle birre in spogliatoio e, per Dio, detesto vedere i miei giocatori che fumano prima di una partita». Bene. Peccato che, poco dopo, alzi la mano Fred Carter, detto ‘Mad Dog’ (ecco…): «Scuci coach, ma io ho l’abitudine di farmi una paglia prima di giocare. E’ l’unico modo che ho per tranquillizarmi». «A posto, Fred. Tu puoi fumare. Ma sia chiaro, solo tu».
Varrebbe la pena fermarsi qui. Perché, in fondo, la spiegazione di quel 9-73 sta tutta in questi passaggi. Eppure ci furono anche altri dettagli che resero quella stagione irripetibile. Dai 19 giocatori messi sotto contratto (parecchi per l’epoca) a uno di loro, quel Kevin Loghery che avrebbe poi allenato i Bulls di un giovanissimo Michael Jordan, che subentrò al suddetto Rubin sul 4-47. Passando per l’omerica nevicata successiva alla partita di Houston (la neve in Texas…) che causò un arrivo in mostruoso ritardo alla successiva trasferta a Portland, con le richieste di rinvio ripetutamente respinte perché il pubblico pagante non voleva perdersi i ‘Sickers’ per nulla al mondo: ovvia sconfitta e primi dieci tiri della gara in modalità airball. E la situazione sarebbe potuta ulteriormente peggiorare se, dopo i disastri di San Valentino (sconfitta casalinga contro Milwaukee e 4-58, con una percentuale dello 0.065 che avrebbe potuto portare a un inimmaginabile 5-77 finale), quella squadra non avesse vinto 5 delle successive 7 partite: ‘salvagente’ con più di qualche buco, soprattutto in virtù dello 0-13 con cui si concluse quell’annata.
Qualcosa di impensabile nella Nba moderna. Al netto di una partenza peggiore e di quasi due mesi a 0 nella casella vittorie (già eguagliati i predecessori che conclusero senza vittorie l’ottobre del ’72 e il marzo del ’73). Ma se la ripetizione di un simile concatenarsi di eventi appare altamente improbabile, a fare da trait d’union tra le due epoche è l’atteggiamento mentale, l’approccio alla partita: pessimo in entrambi i casi, con i giocatori che alla palla a due partono già battuti e che vanno in crisi alla minima difficoltà.
E se persino oltre Atlantico, dove tankare è considerato un peccatuccio veniale (nei limiti), più di qualcuno sta iniziando a sussurrare che così si sta falsando l’intera stagione allora è sarebbe il caso di inziare a porre qualche toppa qua e la e salvare il salvabile. Perché (ri)scrivere la storia, in questo caso, non sarebbe qualcosa di cui vantarsi. Anche solo per una mera questione di dignità.
p.s. Quella dei ‘Sickers’ non è, tuttavia, la stagione con il peggior rapporto vittorie sconfitte di sempre, almeno in percentuale. ‘Meglio’ hanno fatto i Providence Steamrollers del 1947/1948 (appena 6 gare vinte ma con 48 gare giocate), il 7-66 dei Charlotte Bobcats del 2011/2012 (0.106 contro lo 0.110 dei ‘SeventySickers’) successivo al lockout, situazione analoga all’8-50 dei Vancouver Grizzlies del 1998/1999. Ma solo a quella squadra è stata concessa l’immortalità: questa, in un senso o nell’altro, dimorerà per sempre a Philadelphia.