Corre la stagione 2010/2011. I San Antonio Spurs di Gregg Popovich vanno a far visita ai New York Knicks di Mike D'Antoni, dopo aver asfaltato in sequenza Lakers, Mavericks e Thunder. Non dovrebbe esserci storia. E infatti non c'è, ma non nel senso che ci si aspetta. La miglior difesa della Nba ne prende 128 al Madison Square Garden: 91 tiri per 6 palle perse da parte dei ragazzi del 'baffo che conquista', una roba mai vista prima. E mai vista nemmenpo dopo. Almeno fino a questa notte:
Benvenuti alla 'Mike D'Antoni school of basketball'. Che Steve Kerr e il delfino Luke Walton stanno dimostrando di aver frequentato con profitto. Perché se è vero (come è vero) che dell'ex tecnico dei Lakers si può dire tutto e il suo contrario, non si può certo negare che fosse almeno dieci anni avanti ai suoi contemporanei. Soprattutto quando, tra il 2004 e il 2006, sedeva sulla panchina dei Phoenix Suns più spettacolari di sempre. Anche più di quelli dei Charles Barkley e Dan Majerle.
Se cercate chi ha ispirato i Golden State Warriors dei giorni nostri è in Arizona che dovete guardare. I principi di base sono gli stessi; a cambiare sono gli interpreti e la velocità d'esecuzione. Avete capito bene: se quei Suns andavano al doppio degli avversari, questi Warriors vanno al doppio del doppio. Grazie soprattutto a una nuova generazione di atleti più adatta ad interpretare quell'evoluzione del gioco che D'Antoni aveva intuito e che non sempre riusciva a mettere in pratica sul parquet a causa di giocatori non ancora del tutto pronti al basket che sarebbe poi arrivato.
I principi di base, dicevamo. C'è un playmaker/point guard plenipotenziario delle operazioni, in grado di creare indifferentemente per se e per gli altri; c'è l'idiosincrasia per i centri di ruolo in favore di altri in grado di allargare l'area e favorire le penetrazioni degli esterni con pick and roll giocati altissimi, in barba al noto brocardo dell'asse play-pivot; c'è il superamento dell'idea che si possa segnare oltre il 60% dal campo con i lunghi; ci sono le due PF armi totali su entrambi i lati del campo, in grado di riaprire e chiudere il contropiede all'interno della stessa azione; c'è la shooting guard che, entrando dalla panchina ti garantisce punti rapidi e difesa asfissiante sulla prima soluzione offensiva degli avversari; c'è l'utilizzo spasmodico dei tagli per mandare costantemente fuori giri le rotazioni difensive.
Sul -23 nella sfida dello Staples contro i Clippers, Walton ha deciso per il quintetto delle Finals: Curry-Thompson-Iguodala-Barnes-Green. Small Ball allo stato puro; troppo troppo simile a quel Nash-Bell-Diaw-Marion-Stoudemire per essere una coincidenza. Mettiamoci pure che questi Clippers non sono nemmeno lontanamente paragonabili ai San Antonio Spurs che posero fine a quell'utopia ed ecco come tutto torna, come il cerchio perfetto venga idealmente a chiudersi.
Un quarto quarto che si fa fatica a spiegare: 73.3% dal campo (11/15) in 12 minuti, 89% (OTTANTANOVE) da tre con 8 triple su 9 mandate a bersaglio, 9/10 ai liberi, 25-8 di parziale con un canestro per ogni possesso negli ultimi 6 minuti. E potenziali 153.7 punti ogni 100 possessi (contro gli scarsi 92 degli avversari), proseguendo su questa media.
Una lucida follia che nessuno aveva previsto. Tranne uno. Che probabilmente, adesso, starà ridendo sotto i baffi