La base è ottima non c'è che dire. E non dovete credere a noi, ma ai numeri che seguono:
- prima squadra da 19 anni a questa parte a cominciare due stagioni consecutive con 5 vinte e 0 perse;
- differenziale di +104 tra punti fatti e subiti, quinto miglior margine di sempre nell'intera storia Nba;
- Stephen Curry (e chi sennò) primo bipede senziente capace di mandare a bersaglio almeno 25 triple nelle prime 5 gare;
- il suddetto che è il quarto all time nella classifica per punti segnati nelle 5 gare d'apertura dalla regular season (primo, secondo e terzo fanno tutti Michael di nome e Jordan di cognome) a quota 179;
- questi 179 arrivati in 159 minuti e con appena 101 tiri
Con queste premesse le parole di Klay Thompson ("Settanta e più vittorie sono tante, non so se sarà possibile eguagliare questo primato ma noi abbiamo le potenzialità per farcela, infortuni permettendo") non suonano più così blasfeme. Perché se oggi c'è una squadra in grado anche solo di avvicinare l'Everest delle 72 vittorie dei Chicago Bulls 1995/1996, questa risiede nella Baia cestisticamente più famosa del mondo. E, del resto, non più tardi di qualche mese fa, i Golden State Warriors si sono attestati su un 'rispettabilissimo' 67-15: la base migliore possibile per provare a (ri)scrivere la storia.
Ma è realisticamente possibile? E, soprattutto, quanti e quali sono i punti di contatto tra due realtà distanti vent'anni l'una dall'altra?. Più di quanti si possa pensare. Perché, per quanto costruite con uomini e principi di gioco differenti, la sensazione di ingiocabilità è il trait d'union tra due squadre così lontane (nel tempo), eppure così vicine (nella predisposizione alla vittoria).
Certo è, però, che a guardare i numeri e le statistiche di quei Bulls non si comincia nemmeno. Al di là del ritorno di un Jordan determinato come non mai (e che Tim Grover doveva letteralmente tenere a freno per evitare sovraccarichi dovuti ai tanti allenamenti), Phil Jackson aveva messo su una macchina perfetta e praticamente inarrestabile. Basti pensare che i Bulls, dopo la pausa dell' All Star Game, chiusero la stagione regolare con il record di 39-2 (TRENTANOVE A DUE) e perdendo la prima partita casalinga in assoluto a meno di un mese dalla fine della RS. Con una data a segnare la storia: andando a vincere la partita numero 70 a Milwaukee l'8 aprile del '96 (e togliendosi lo sfizio di vincere, poi, due delle rimanenti tre sfide), i Bulls si lasciarono definitivamente alle spalle il 69-13 dei Lakers del 1971/72 (quelli, per intenderci, capaci di fissare a 33 il record per il maggior numero di vittorie consecutive). Che, tra l'altro, avrebbero eguagliato nella stagione successiva, riuscendo nella rimarchevole impresa di essere i titolari della prima e seconda striscia più vincente nella storia della NBA.
Ma la squadra più forte di sempre non era solo Jordan. C'era un'organizzazione di base irreplicata e forse irreplicabile, oltre ad una durezza mentale e ad una concentrazione sull'obiettivo senza precedenti. Il concetto di eyes on a prize nacque allora, ancorato a due capisaldi che spiegano meglio di tante parole quel dominio incontrastato. E che, al contempo, costituiscono la similitudine più evidente con i Warriors attuali.
Nel calcio, quando si ha un fuoriclasse in attacco, si è soliti dire che ogni partita parte sempre dall'1-0: ebbene, per quei Bulls il margine si dilatava fino al 12.2 a 0. Non tanto per i trentelli jordaneschi sera si sera no, quanto per l'applicazione dal punto di vista difensivo: con 92.2 punti concessi di media (che fa il paio con la statistica cha ha visto Golden State come la squadra che ha concesso meno punti su singolo possesso), Chicago ebbe la seconda miglior difesa della lega (seconda solo ai Pistons), pur non potendo contare su un reparto lunghi di primissimo livello. Perché se Rodman, dal basso dei suoi due metri scarsi, comunque garantiva rimbalzi ed efficacia estrema in un sistema di read and react, Kukoc, come Penelope con la famosa tela, disfaceva in difesa ciò che faceva in attacco, e Longley si trovava spesso gravato di falli già prima dell'intervallo lungo. E se leggendo queste righe avete pensato ai Warriors di Kerr, con Bogut 'finto 5' e Barnes e Iguodala a cantare e portare la croce, non avete le traveggole. Così come non le avete quando identificate nel lavoro sul perimetro il vero punto di forza del sistema difensivo: perché, pur con le dovute proporzioni, Curry, Thompson e Green fanno ciò che facevano all'epoca Jordan, Harper e Pippen, vale a dire una pressione a tutto campo che consetisse al pivot (Rodman/Bogut) di fare liberamente a sportellate sotto i tabelloni.
"La difesa era la migliore caratteristica di quella squadra" ha sempre detto Scottie Pippen. Caratteristica che andava a sommarsi all'efficacia, sull'altra parte del campo, della Side-line triangle di Tex Winter, capace come nessuno di esaltare le caratteristiche del 23. Ciò che fanno, due decenni dopo, lo Screen the screener e l' Elevator doors con le uscite dai blocchi degli 'Splash Brothers'. Due che, comunque, sono tranquillamente in grado di prendersi tiri dal palleggio, seppur non nei modi e nei tempi previsti dal loro sistema.
Al di là di tutto, è ancora troppo presto per dire se Golden State possa avvicinare o eguagliare (superare ci sembra francamente impossibile) quel 72-10. E, soprattutto, oggi come allora, vale sempre uno dei più famosi brocardi jordaneschi: "Settantadue vittorie non significano niente senza il titolo". Perché i Chicago Bulls non ebbero una flessione nemmeno ai playoff: 3-0 agli Heat, 4-1 ai Knicks, sweep ai Magic di Shaq e Penny Hardaway, 4-2 alle Finals contro i Sonics. Per un 87- 13 che non si potrebbe fare nemmeno alla Playstation.
La strada per riscrivere la storia è ancora lunga. E i Golden State Warriors hanno appena iniziato a camminare. Ma mai come questa volta potremmo essere testimoni di un qualcosa senza precedenti.