Hollywood, California. Quando si scende in campo allo Staples Center, a Los Angeles, sponda Lakers, lo si fa con un solo obiettivo: vincere. Gli ultimi episodi della squadra gialloviola sembrano altresì aver messo da parte, almeno momentaneamente, questo assunto fondamentale. Concetto a dir poco inconcepibile soprattutto per il leader spirituale nonché tecnico della franchigia: Kobe Bryant, che non più tardi di qualche giorno fa ha precisato e sottolineato, come si fa a scuola con un errore marchiano, l'importanza di ridare lustro e interesse al pubblico, esigente, della città, che ha visto negli ultimi anni i cugini Clippers (quelli in teoria sfigati e perdenti) farla da padrone senza alcun disturbo. I bulli del quartiere sono diventati gli acerrimi rivali e per giungere alla genesi di questa clamorosa inversione di tendenza bisogna tornare alla tanto discussa trade che avrebbe dovuto portare Chris Paul in maglia gialloviola, prima di accasarsi sull'altra sponda.

Da allora i Lakers sono sprofondati in una crisi di risultati, e soprattutto d'identità, apparentamente senza fine. Anche se nella NBA queste fasi cicliche, nelle quali si alternano break vincenti ad altri perdenti, sono all'ordine del giorno, quando succede ad LA il clamore non può che essere esponenziale e conseguente alla cassa mediatica dei gialloviola che risuona in tutto il Mondo. Il rinnovo di Bryant, i logorii fisici di una star sul viale del tramonto, la scarsissima programmazione di una proprietà che ha avuto più interessi sul contorno rispetto al primo piatto, sono tutte concause che hanno portato i Los Angeles Lakers al punto nel quale si ritrovano al giorno d'oggi. Al contempo, tutta la stampa locale e non, si accanisce ovviamente sulla seconda squadra più titolata della Nazione ogni qual volta le cose non vanno come dovrebbero, ingigantendo tutti i problemi che ne nascono al suo interno. La mancanza di un parafulmine come poteva esserlo Jackson nel primo decennio degli anni 2000, ha successivamente contribuito ed influito nel rendere ancor più fragile la dirigenza, vulnerabile come mai nell'era moderna ad attacci e punzecchiature esterne. Parlare di progetto a lunga scadenza, in una città ed in un contesto come quello dei Lakers è profondamente sbagliato, in quanto la frase ricorrente è quella che rimanda al primo rigo di questo articolo: vincere è l'unica cosa che conta.

Nel contesto attuale dei Los Angeles Lakers versione 2015/2016 si inizia a vedere, tuttavia, una luce in fondo ad un tunnel oramai lunghissimo, che la squadra dei Buss percorre a fari spenti dal lontano 25 maggio del 2011, quando si affidò a Mike Brown la rifondazione nell'era post Jackson e back to back (2009-2010). L'ex Cavs non riuscì ad imporsi, sia per colpe proprie che per demeriti non direttamente suoi: la sua parentesi fu condizionata fortemente dall'impossibilità di portare a casa CP3. Da allora sulle scelte societarie sembra essere calata una sorta di maledizione, con tutte le decisioni successive che si sono rivelate un fiasco totale.

I Lakers di oggi sono, a tutti gli effetti, un perfetto connubio tra le scelte errate del recente passato e quelle discrete, fatte in ottica futura, di oggi. Il peso dell'ingaggio di Kobe Bryant, esoso come pochi nella storia del gioco per un trentasettenne sul viale del tramonto, non ha permesso, per taluni o talaltri motivi, di portare a casa molti giocatori che nel corso degli ultimi due anni si erano liberati dai rispettivi contratti. In tal senso, inoltre, non è stato rinnovato il contratto di Pau Gasol, che ha indebolito e non poco l'assetto strutturale del roster dei gialloviola, mentre il catalano ha dimostrato in altre sedi di saper essere ancora decisivo come pochi. La decisione di preferire all'iberico giovani rampanti che non hanno dimostrato ancora il proprio valore non ha dato ovviamente i frutti sperati.

I dubbi del giovane Scott

Ciononostante si è provato finalmente a dare una sterzata al mercato, cercando di svegliare una squadra diventata oramai abulica negli ultimi anni. La scelta di mettere sotto contratto giocatori già belli e pronti come Hibbert, Lou Williams (eccellente acqusito come sesto uomo) e Bass, per puntare all'obiettivo minimo stagionale (i playoff), sembravano in partenza molto oculate, soprattutto se si andavano a sposare con giovani di belle speranze come D'Angelo Russell e Julius Randle, due fiori appena sbocciati sui quali puntare forte per il futuro della franchigia. Purtroppo però, questi innesti vanno ancora a cozzare clamorosamente con la presenza in rosa di giocatori che tatticamente si sposano male nelle intenzioni di gioco di coach Scott. Molti, forse fin troppi, sono i dubbi tattici che turbano le notti del coach dei Lakers, che sembra essere ancora alle prese con numerosissime controversie.

Partendo dal quintetto che dovrebbe mettere piede in campo dai primi secondi di ogni gara, le uniche certezze sembrano essere quelle dei tre playmaker: Clarkson, che nella passata stagione con discrete pressioni sulle spalle ha saputo mettere in mostra tutte le sue giovani e belle qualità, sarà il titolare, mentre il prodigio D'Angelo Russell è pronto a subentrare e farsi le ossa in corso d'opera (da non scartare l'ipotesi di vederlo da guardia). Da valutare, inoltre, l'inserimento di Huertas. Il tarlo più fisso ad oggi sembra essere quello legato al ruolo del 24, che si dovrebbe dividere negli spot comunemente chiamati di guardia o di ala piccola: Kobe non sembra avere in attacco, all'età di 37 anni, la possibilità fisica e fisiologica (guai a parlare di tecnica) di stare al passo con le guardie del basket moderno. Maggiormente più consono alla sua mobilità attuale sembra l'abito cucitogli addosso da small-forward, dove avrebbe sì al cospetto giocatori ben più dotati fisicamente di fronte, ma che potrebbero permettergli di sfruttare una maggiore agilità datagli dall'esperienza e da un talento smisurato. Discorso opposto invece spalle a canestro, dove il Mamba potrebbe all'occorrenza difendere sul 'pericolo minore' degli avversari per preservare meglio la sua dose di energia giornaliera e la sua integrità.

Anthony Brown, provato a lungo in pre-season da titolare accanto a Bryant, e Metta, al netto delle sue condizioni fisiche, le alternative nel ruolo. Il tutto senza dimenticare per quanto riguarda la second-unit, il dualismo Williams-Young che potrebbe risultare sì potenzialmente devastante, ma anche fallimentare. Analizzando questo aspetto, propendiamo per la seconda ipotesi formulata, in quanto si tratta soprattutto nel secondo caso di un cestista che per esprimere al meglio il suo estro ha necessità di inventare e crearsi soluzioni individuali dal palleggio. Allo stesso tempo, però, togliere dalle mani del sesto uomo dell'anno scorso il pallone, sembra un delitto dopo avergli fatto firmare un contratto da 7 milioni l'anno.

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L'ennesima contesa alla quale Scott dovrà porre rimedio sembra essere legata al fatto che sia Randle che Hibbert sono due giocatori prettamente interni che perimetrali: il centro ex Pacers non ha bisogno di presentazioni, ed il suo raggio d'azione non si sposta mai più lontano, in attacco come in difesa, dai 3-4 metri dall'anello; il novello Randolph, prodotto dei Kentucky Wildcats, dalla sua ha una propensione a partire maggiormente fronte a canestro, anche fuori dalla linea dai tre punti, oltre ad una maggiore mobilità rispetto al mancino di Memphis, anche se ha bisogno, così come il suo modello, di spazio all'interno dell'area dei tre punti per esprimere il suo potenziale. Scott in tal senso sembra essere deciso ad alternarne l'uso, ruotandoci attorno sia Kelly (positivo il suo impatto) che Bass (quando tornerà dall'infortunio).

Quale soluzione per la stagione in corso?

L'assetto per la regular-season che tra due settimane alzerà il sipario sembra essere ancora del tutto enigmatico, anche se in aiuto a Scott potrà arrivare, si spera il prima possibile, l'esplosione di D'Angelo Russell. L'utilizzo di quest'ultimo in un quintetto ideale accanto a Clarkson e Bryant, con Randle e Hibbert sotto le plance, potrebbe permettere al coach di trovare un discreto equilibrio in attacco, anche se difensivamente lascerebbe ancora irrisolti numerosi quesiti. Nella second-unit sarà necessario riporre sulle spalle di Lou Williams tutte le speranze, magari affiancandogli giocatori di sicuro affidamento come Huertas, Metta e Bass, utilizzando Nick Young soltanto in casi di estrema necessità dove l'invenzione del singolo può servire a cavarsela in determinate situazioni. Il punto debole di questi Lakers sembra risiedere in difesa, dove non sembrano esserci né specialisti, né un sistema che metta delle toppe alle enormi lacune che ognuno sembra dimostrare. Non basterà il solo Hibbert con le sue doti di stoppatore eccellente a porre rimedio a tutte le falle viste lo scorso anno.

Ed il futuro?

Il futuro ad LA sembra sempre meno torbido e nebbioso: si ripartirà, nella prossima stagione, da Williams, ma soprattutto da Randle e da D'Angelo Russell, che avranno sulle rispettive giovani spalle un'annata comunque da attori non protagonisti. La free agency 2016 servirà ai Lakers per scrivere un nuovo capitolo della loro storia, con Hibbert e Bryant che potrebbero e dovrebbero lasciare sul piatto i loro contratti (circa 40 milioni), garantendo ampissimi margini di manovra alla dirigenza gialloviola. La speranza di arrivare a Kevin Durant è sempre l'ultima a morire, e qualora si riuscisse ad imbastire una trade per portare a casa un playmaker di livello utilizzando come pedine di scambio Clarkson e Young, i più appetibili per altri lidi, allora si potrà tornare a parlare di una squadra con ambizioni degne dei Los Angeles Lakers.