No, i Clippers non sono una franchigia convenzionale. Non che fosse necessario rendersene conto nell'anno di (dis)grazia 2015, arricchito da nuovi capitoli nella loro collezione di insuccessi. Ma, tra tutte le vicende della L.A reietta, snobbata e spesso derisa dal resto del mondo Nba, l'affaire DeAndre e lo psicodramma della semifinale di Conference contro gli Houston Rockets hanno confermato quanto sia difficile vivere all'interno dei Clips.

Dopo il caso Sterling - ex proprietario costretto a vendere la franchigia a causa della pubblicazione di registrazioni in cui il vecchio Donald faceva delle battute discriminatorie nei confronti della comunità afro-americana - sembrava che l'apice fosse stato toccato, la rotta cambiata in direzione titolo Nba. L'avvento di Steve Ballmer come owner della società, all'esito di un procedimento un tantino dirigista, induceva all'ottimismo per le magnifiche sorti e progressive dei Clippers. Un roster finalmente all'altezza, anche se non completissimo, un allenatore come Doc Rivers esperto e competente, la crescita di Blake Griffin e la sapiente regia di Chris Paul, parevano schiudere nuovi orizzonti ad una Lob City tutta in attesa di esaltarsi per le prodezze dei propri beniamini. Il concomitante declino dei cugini dei Lakers rendeva ancor più gustoso il magic moment della squadra di Chris Paul, leader tecnico di un gruppo tra i meno amati della lega. La vittoria in gara-7 al primo turno di playoff contro i campioni in carica dei San Antonio Spurs sembrava l'epilogo di una storia fatta di sfortuna, scelte sbagliate e gestioni fallimentari. La finale di Conference era a un passo, lì a portata di mano, contro gli Houston Rockets di James Harden quando, nel quarto quarto di una cruciale sesta partita casalinga, i Clips subirono un parzialone da quaranta punti a quindici, che è un po' come commettere tre doppi falli consecutivi in un game in cui servi per la finale di Wimbledon.

L'estate dei Clippers prende dunque il via da quella serie contro i Rockets (persa alla bella, non c'è bisogno di ricordarlo), svolta di una stagione che da trionfale è diventata l'ennesimo disastro di una franchigia che sembra non avere pace. Un Chris Paul furioso per l'atteggiamento dei suoi, frustrato dall'ennesima annata chiusa troppo prematuramente, ha contribuito a gettare benzina sul fuoco di un ambiente già in stato di ebollizione. I suoi rapporti - non esattamente idilliaci - con DeAndre Jordan, lungagnone della squadra ritenuto imprescindibile dall'allenatore per il suo atletismo, si deteriorano ulteriormente. Ecco che Jordan, in scadenza di contratto, rifiuta inizialmente il rinnovo in quel di Los Angeles, per dare la sua parola ai Dallas Mavericks di Mark Cuban. Ma il periodo di moratoria Nba, che prevede una sorta di spazio temporale neutro fino al 9 luglio prima di poter firmare un contratto, consente ai Clippers di mettere in atto un opera di (ri)convincimento del loro centro, con tanto di spedizione in massa a Houston - residenza di Jordan - per riportare la pecorella smarrita nel gregge dello Staples Center. Missione compiuta e maxicontratto garantito al buon DeAndre, con buona pace di un inviperito Mark Cuban (proprietario dei Mavs) e di tutta la Dallas cestistica.

L'affaire DeAndre scatena poi una ridda di polemiche sulla necessità o meno di rivedere le regole Nba quanto al mercato dei free agents. Intanto Paul, per smentire ogni dissidio con il suo compagno di squadra, arriva addirittura a postare sulla propria pagina Facebook una citazione di Edgar Allan Poe, invitando tutti a non credere a quanto si legge e si ascolta in giro per il mondo (Nba nella fattispecie). In questo clima surreale la vita prosegue all'interno della Lob City: arrivano, tra gli altri, Paul Pierce e Lance Stephenson, nella speranza di costruire un roster in grado di competere senza se e senza ma per la conquista dell'anello. Nel frattempo Austin Rivers, figlio del coach Doc - anche presidente e plenipotenziario della franchigia - rinnova il suo contratto preannunciando battaglia per la stagione successiva.

Di tutta questa prima parte di estate, ciò che più colpisce non sono tanto le modalità poco ortodosse con le quali si è rinnovato il contratto a Jordan, quanto la scelta in sè di far rifirmare un giocatore che, ancorchè utile in difesa e spettacolare dall'altro lato del campo con schiacciate da poster a chiusura di alley-hoop, è nella maggior parte delle azioni offensive un corpo estraneo al gioco della squadra. Fermo nell'area avversaria, più preoccupato di evitare un tre secondi offensivo che di muoversi in armonia con gli altri quattro, Jordan poteva essere rimpiazzato con un altro lungo magari meno atletico e più tecnico (ogni riferimento a Monroe e a Hibbert è puramente voluto), mentre adesso i Clippers dovranno ripresentare il loro quintetto abituale, con tutti i pregi e i difetti che ne derivano. Pierce potrebbe portare un po' di sangue freddo in un ambiente in cui la concitazione ha troppo spesso il sopravvento, nonostante l'ingaggio di Lance Stephenson non deponga esattamente in questa direzione. Inutile girarsi intorno: l'anno prossimo i Clips devono arrivare almeno in finale Nba, il che significa sbaragliare la concorrenza ad Ovest, per evitare l'ennesima rifondazione, l'ultima di una franchigia mai vincente, forse la più dolorosa.