Da Davidson College alla Quicken Loans di Arena, Cleveland, Ohio, il passo non è stato breve. Scartato dalle più importanti università della costa orientale degli Stati Uniti a causa di un fisico gracile e ritenuto troppo leggero per la pallacanestro, Stephen Curry ha trascorso la sua vita cestistica cercando di dimostrare a tutti che lui, il figlio di Dell, non solo avrebbe giocato nella Lega più importante al mondo, ma che lo avrebbe fatto da protagonista. Tre anni al college a Davidson, North Carolina, con indosso la maglia dei Wildcats, alla periferia del basket universitario che conta, e poi scelto alla settima chiamata all'Nba Draft del 2009 (quello di Blake Griffin e James Harden, ma anche di Thabeet e Flynn alla numero 2 e 6) dai Golden State Warriors, franchigia un tempo gloriosa ma a secco di successi da più di tre decadi.
I primi anni a Oakland sembravano dar ragione agli scettici. Troppi infortuni, specie alle caviglie, vero e proprio tallone d'Achille di Steph, costretto ai box più volte nelle stagioni 2011 e 2012. Un'altra scelta azzardata dei Warriors - dicevano gli addetti ai lavori - circa la decsione della franchigia della Baia di puntare su Curry, considerato talentuoso ma non all'altezza di una solida carriera Nba. Ma lui, il nativo di Akron (come LeBron James, suo rivale nelle ultime Finals), non ha mai smesso di credere in se stesso, continuando a lavorare sul suo tiro, fino a farne un marchio di fabbrica ben riconoscibile, da brevetto sulla proprietà industriale. E' il 2013 l'anno della svolta per Curry: due stagioni prima i Warriors hanno pescato al Draft un'altra guardia dal talento sopraffino ma dalla discutibile fisicità, quel Klay Thompson con il quale il ragazzo da Davidson costituirà un reparto di esterni che diventa subito di culto, con tanto di appellativo di Splash Brothers per i due gemelli del basket, a causa della pulizia del tiro da tre punti e del rumore dolcissimo che il pallone emette quando si tuffa nella retina, splash appunto.
Il 27 febbraio 2013 Curry segna 54 punti contro i New York Knicks al Madison Square Garden, la Mecca del basket a stelle e strisce, e il mondo comincia a conoscere questo ragazzo con lo sguardo da bambino e dagli occhi chiari, quasi glaciali, che nasconde dentro di sè l'istinto del vincente. La vera epifania di Curry è costituita però da gara-1 del secondo turno dei playoff della Western Conference contro i San Antonio Spurs all'AT&T Center in terra texana. La partita è uno show assoluto di Curry, autore di 44 punti contro una delle due squadre più forti della Lega. I Warriors perderanno poi quella serie in sei gare, ma è lì che tutti comprendono quale sia il reale potenziale di Steph, guidato dalla panchina da Mark Jackson, uno che di point-guard ne sa qualcosa, quarto nella classifica all time per assist Nba.
Curry comincia a sgretolare ogni tipo di record, soprattutto con le sue triple, parte fondamentale del suo gioco, superando Ray Allen per tiri dall'arco messi a segno in una sola stagione. Dopo un'annata di transizione conclusasi con l'eliminazione al primo turno dei playoff ad opera dei Los Angeles Clippers, Golden State decide di effettuare un cambio di allenatore: via Jackson, dentro Steve Kerr, ex giocatore di Bulls e Spurs (5 titoli per lui) ed ex general manager dei Phoenix Suns di Mike D'Antoni e Steve Nash, altro artista del gioco cui Steph ha sempre dichiarato di ispirarsi. I rumors provenienti da Oakland lasciano trapelare un Curry irritato con la società per l'esonero di Jackson, cui era legato da un particolare rapporto di affetto e stima. Ma basta poco a Kerr per entrare nella testa di Steph rendendolo un giocatore ancora migliore per letture, assist e leadership. Un connubio perfetto che porta il numero 30 in maglia Warriors ad essere il playmaker titolare per l'Ovest all'All Star Game 2015 (in cui trionferà anche nella gara del tiro da tre punti) e a ricevere il premio di most valuable player della stagione regolare, al termine di un testa a testa con James Harden degli Houston Rockets.
Il resto è pura attualità. La cavalcata playoff, il titolo di campioni della Western Conference e le Nba Finals contro i Cleveland Cavaliers dell'immenso LeBron James. Dopo le prime tre gare Golden State è in svantaggio e Curry appare spaesato, con il mondo Nba pronto a scommettere in un suo crollo psicologico, ancor prima che tecnico. Ma per uno che ha sempre dovuto risalire la china, dai tempi del college in poi, la pressione non è un problema. Una gara-5 da cinema con 37 punti lo spedisce dritto nella storia del gioco, seguita a stretto giro di posta dalla consacrazione di ieri notte a Cleveland, Ohio, lo Stato in cui è nato. Da Davidson all'anello Nba, in pochi avrebbero immaginato che quel ragazzino dal fisico esile sarebbe diventato un ballerino del basket, perfettamente a suo agio nella veste del closer, l'uomo che decide le partite quando il pallone pesa e l'atmosfera si fa rarefatta.