Detroit pensa di meritare i grandi palcoscenici, e non sbaglia. La storia parla per lei. La franchigia fu fondata nel 1941 da Fred Zolliner in Indiana, e portata a Detroit nel 1957 dopo il fallimento dei Detroit Gems. In questo intervallo di tempo i Pistoni vinsero due titoli di National Basketball League nel ’46 e nel ’47. Il passaggio a Detroit però si rivelò un fallimento per Zolliner, la squadra non raggiunse mai ottimi risultati e così nel 1974 la franchigia cambiò proprietario, passando dalle mani di Zolliner a quelle di Bill Davidson, attuale proprietario. Le sorti della franchigia però iniziarono a cambiare agli inizi degli anni 80, precisamente col draft 1981 durante il quale i Pistons ebbero la seconda chiamata assoluta e la utilizzarono per selezionare il playmaker in uscita da Indiana University: Isiah Thomas. Avere un giocatore così in squadra, dalle qualità incredibili, obbligò i Pistons a cercare di costruire una squadra per vincere. Ecco così che a stagione in corso approdarono nella città dei motori Bill Laimbeer da Cleveland e Vinnie Johnson da Seattle, per cercare di costruire quella squadra da titolo che si concretizzò (seppur con mille fatiche iniziali) con i successivi approdi di Joe Dumars, Rick Mahorn e Dennis Rodman. Era questo il nucleo dei Detroit Pistons che cercherà di imporsi ai vertici della lega.
LA NASCITA DI UNA STELLA ED I GRANDI PISTONS - Dopo le amare delusioni di metà anni ’80, infatti, con i draft ’85 e ’86 e le scelte proprio di Dumars e Rodman, unite ad un cambiamento di gioco deciso dal coach Cuck Daily e dal leader e uomo franchigia Thomas, più fisico ed aggressivo che procurò loro il soprannome di “Bad Boys”, Detroit voltò definitivamente pagina e si assestò per anni ai vertici della lega. Nel 1987 vennero raggiunte le finali di conference, e nacque una rivalità che durò per anni coi Boston Celtics di Larry Bird che in quelle finali ebbero la meglio su Thomas e compagni per 4-3. La rivincità si consumò l’anno seguente, quando i Pistons reduci dalle 54 vittorie della stagiore regolare batterono i Celtics sempre nella finale della Eastern Conference per 4-2. Quei Pistons si piegarono però ai Lakers, nonostante una prestazione di Isiah Thomas consegnata subito ai posteri con 25 punti in un quarto (il terzo, record NBA) e una caviglia messa molto male, slogata, nella decisiva gara 6 persa dai Pistons che consegnò l’anello ai Lakers del trio Magic-Whorthy-Jabbar. Come con i Celtics però ci fu da attendere poco per la rivincita: l’anno dopo infatti, spinti anche dall’entusiasmo del nuovo palazzetto, il Palace of Auburn Hill, i Pistons distrussero i Lakers 4-0, con Dumars eletto MVP delle finali e con l’ultima apparizione in canotta e scarpette sul parquet del grande Kareem Abdul Jabbar. La stagione 1989-90 fu altrettanto gloriosa per i Bad Boys, 59 vittorie in regular season, la vittoria della conference ai danni dei Chicago Bulls di Jordan (con conseguente inizio di una nuova rivalità) e la vittoria netta delle finals ai danni dei Portland Trail Blazers (4-1) con il record di aver vinto tutte e tre le gare centrali giocate in trasferta, e con il canestro di Johnosn in gara 5 a 0.07 secondi dalla sirena per il 92-90 finale, dopo essere stati sotto 90-83 a due minuti dal termine. Questo fu il momento più alto della storia dei Pistons, un leggendario back to back che fu fermato solo dall’ascesa del giocatore più forte di tutti i tempi, Michael Jeffrey Jordan, che coi suoi Bulls distrusse nella stagione ’90-’91 i Bad Boys di Thomas 4-0 in finale di conference, facendosi beffa di quest’utlimo che obbligò i compagni a non salutare e quindi a non riconoscere la vittoria, seppur netta, agli avversarsi al termine di gara 4 (episodio che gli costò inoltre l'esclusione dal Dream Team di Barcellona).
Dopo anni difficili, conseguenti al ritiro delle sue stelle, i Pistons tornarono sulla cresta dell’onda negli anni 2000, sempre trainati da Joe Dumars che si svestì dai panni di giocatore per indossare quelli di presidente. Nel 2001 affidò la panchina a Rick Charlisle arrivando alle 50 vittorie stagionali e nel 2002 rafforzò la squadra con il costless agent Chauncey Billups, acquistando dai Washington Wizards Rip Hamilton e draftando da Kentucky Tayshaun Prince. I Pistons chiusero un'altra stagione da 50 vittorie e avanzarono fino alle finali di Eastern Conference dove però vennero distrutti per 4-0 dai New Jersey Nets di Jason Kidd. Sconfitta che portò all’allora sorprendente esonero di coach Charlisle nella offseason 2003, conseguentemente anche all’interesse mostrato dal coach per l’interessamento degli Indiana Pacers durante i Playoff 2003. Effettivamente Charlisle firmò per Indiana e sulla panchina dei Pistoni si sedette l’hall of fame Larry Brown a caccia del suo primo titolo NBA dopo esserci andato vicinissimo coi 76ers e aver incanalato il talento di un certo Allen Iverson verso direzioni più giuste.
PLAY THE RIGHT WAY - Al draft 2003, uno dei più ricchi di sempre, i Pistons si presentarono con la seconda scelta assoluta e la possibilità di reclutare talenti del calibro di Carmelo Antonhy, Dwayne Wade e Chris Bosh (era scontata infatti la chiamata dei Cavs alla 1 : LeBron James); purtroppo per loro la spesero male affidandosi al serbo Darko Milicic che allora pareva essere la risposta europea a King James. Amore mai sbocciato tra lui e coach Brown, così che agli inizi del 2004 i Pistons misero a segno la mossa decisiva: affidarsi all’incredibile talento, difficile da gestire, di Rasheed Wallace, in rotta con Portland dove aveva scritto pagine importanti, e transitato per una sola partita, prima di approdare a Detroit, agli Atlanta Hawks. Billups, Hamilton, Prince, Rasheed Wallace, Ben Wallace: si presentarono così nel 2004, riuscendo in una delle più belle imprese della storia di questa lega. Dopo aver infatti regolato Bucks (4-1), Nets (4-3 dopo esser stati sotto 2-3) e i Pacers di Charlisle (4-2), i Detroit Pistons di coach Brown distrussero i Los Angeles Lakers di coach Jackson e di Shaquille O’Neal, Kobe Bryant, Karl Malone e Gary Payton dati per grandissimi favoriti. Un gioco di squadra corale, uno spirito di sacrificio incredibile, la ricerca sempre della miglior opzione possibile in attacco e una importanza incredibile data alla difesa, fecero sì che i Pistons tornassero a vincere l’anello, sempre contro i Lakers come nel finire degli anni ’80 per 4-1, col fattore campo a sfavore, e con l’unica sconfitta subita grazie ad un miracolo di Kobe Bryant in gara 2 che portò la partita ai supplementari poi vinti dagli angelini. Chauncey Billups eletto MVP delle finals e tutti a far festa in quel di Detroit. Festa che provarono a ripetere l’anno seguente (l'anno della mega rissa Pistons-Pacers) e che si fermò solo a gara 7 di una leggendaria finale disputata con i San Antonio Spurs. Da lì in avanti diverse finali di conference e partecipazioni ai PO per i Pistons, ma sotto la guida di Flip Saunders che sostituì Brown si dovettero fermare prima dinanzi ai Cavs di James e poi ai Celticis dei big 3 (Pierce-Garnett-Allen).
IL DECLINO - Con lo smantellamento di quella grandissima squadra, causata dal cambio canotta di Ben Wallace andato ai Bulls, al trasferimento di Billups ai Nuggets e alla fine del contratto di Rasheed che si accasò ai Celtics, iniziarono stagioni difficili per i Pistons che nell’estate del 2010 partecipano alla loro prima draft lottery della storia. E’ dalla stagione 2008/09 che mancano dai Play Off.
LA SCORSA STAGIONE - 29-53 il deludente record di una stagione che i Pistons devono dimenticare in fretta, con l’esonero di coach Ceecks e la sintonia mai trovata nel front court Smith-Monroe-Drummond. La stagione doveva essere quella della svolta, con la firma dell’ambito costless agent Josh Smith proveniente da Atlanta, ed un giro di scambi che porta nella città dei motori il giovane e rampante ex Roma Brandon Jennings, oltre che all’ottava scelta assoluta del draft Cadwell-Pope. Quest’anno ci si aspetta sicuramente molto di più da tutti e tre.
IL NUOVO COACH - L’entusiasmo non sembra essere quello dello scorso anno, che vide qualche proclamo di troppo magari, ma ciò non toglie che la squadra è chiamata a far sicuramente molto meglio, ed è forse proprio per questo che è stata affidata la panchina a Stan Van Gundy. Quest’ultimo è un allenatore che non ha mai vinto niente (perché niente viene considerata la vittoria di una conference quando poi non hai l’anello al dito) ma che è sempre riuscito a mantenersi a livelli ottimi. Scaricato da Miami dopo aver perso una finale di conference nel 2005 proprio a favore proprio dei Pistons (4-3), e per rapporti non idilliaci con Shaquille O’Neal, resta fermo due anni prima di firmare nel giugno del 2007 sempre in Florida, ma questa volta per gli Orlando Magic. Tocca l’apice con le inaspettate finals del 2009, alle quali arriva dopo aver sconfitto 76ers (4-2), Celtics campioni in carica (4-3) e i Cavaliers dell’MVP della stagione LeBron James (4-2) dove i Magic di Coach Stan si piegano ai Lakers di Kobe e Gasol (4-1). Sarà curioso vedere come imposterà il gioco il nuovo coach, in una squadra che si è distinta sicuramente non per i risultati, bensì per i centimetri e i muscoli schierati nelle posizioni 3, 4 e 5, in una NBA e più in generale in una evoluzione della pallacanestro che vede sempre più 4 “atipici”. Van Gundy che infatti ha costruito la sua migliore stagione ai Magic, con Torkoglu da 3 e Lewis da 4. Il primo grande gestore della palla che partiva anche con la palla in mano, il secondo tiratore mortifero che ama allontanarsi dall’area e giocare fronte a canestro. Caratteristiche insomma, a dir poco diverse dai giocatori (Smith, Monroe, Drummond) che si trova il coach ora tra le mani.
I NUOVI ARRIVI - persi Stuckey (direzione Indiana) e Villanueva (direzione Dallas) i Pistons non si sono mossi moltissimo sul mercato, e hanno firmato il costless agent in uscita dai Lakers Jodie Meeks con un contratto di oltre 18 milioni di dollari in 3 anni, un po’ troppi forse nonostante il suo ottimo tiro. Inoltre dal draft arriva con la chiamata numero 38 Spencer Dinwiddie, guardia che dovrà certamente faticare parecchio per conquistarsi un posto che conta nella rotazione di Coach Van Gundy, così come il “nostro” Gigi Datome. Cronologicamente l’ultimo arrivo è stato quello del veterano Caron Butler, un all star chiamato a contribuire con esperienza e punti dalla panchina, che permetterà di giocare più minuti con lo “small ball”, e quindi con Smith da 4 e solo uno tra Monroe (che ha firmato la qualifying offer dei Pistons) e Drummond.
LA STELLA - così come l’intera squadra e forse ancor di più dato che la NBA è la lega delle superstar per eccellenza, Josh Smith è chiamato a far dimenticare la brutta stagione precedente, e tornare ad essere il giocatore ricco di intensità, aggressività ed atletismo che siamo sempre stati abituati ad ammirare. Troppo molle J-SMoove la passata stagione ed i pochi minuti da 4 per lui forse hanno inciso sulle sue prestazioni; troppo lontano dal ferro (tanti tentativi da 3 per lui, come mai in carriera, con diversi air ball) troppa poca voglia in difesa. Insomma l’ombra del giocatore ammirato per tanti anni ad Atlanta. Il suo contratto da 14 milioni di dollari l’anno inoltre ha accentuato tutte queste mancanze, vedremo Coach Vun Gundy se sarà capace di risvegliare il suo talento.
OBIETTIVI - in una Eastern Conference che vede Cavs e Bulls almeno sulla carta davanti a tutti gli altri, i Pistons cercheranno sicuramente di accaparrarsi un posto nella corsa ai Play Off. Sempre restando alla “carta”, hanno tutti i numeri e le possibilità per farlo. I giovani hanno tutti un anno di esperienza in più, Van Gundy si è visto accontentare con la firma di due tiratori essenziali per il suo gioco (Meeks e Butler), il pubblico è sempre tra i più fedeli della lega nonostante la risaputa distanza del Palace dal centro città. Se dovesse funzionare tutto ciò l’obiettivo del 50% di vittorie in stagione non dovrebbeessere utopia, e con un record tale, la presenza nella griglia dei Play Off della Eastern Conference,è quasi scontata. Un primo obiettivo che potrebbe ridare fiducia alla città e riportarla lì dove pensa di meritare di essere.