Si ritira Allen Iverson. Dopo Kidd, Hill e McGrady, lascia anche The Answer, la risposta. All'alba della nuova stagione, in un immaginario passaggio di testimone, consegna, definitivamente, le chiavi di quella che è stata la sua casa, da quel lontano '96, quando annunciò lo sbarco nella Lega più bella del mondo. Prototipo differente rispetto agli altri. Ineguagliabile. Tracy era il genio indolente, Grant lo scienziato del gioco, Jason il mago dell'assist. E Allen? Difficile racchiuderlo in una parola. Forse il coraggio. Meno di un metro ottanta, neanche settanta chili, nella Nba dei super atleti e dei colossi. Senza paura, mai. D'altronde come avrebbe potuto aver paura un figlio della Virgina del Sud, nato da una madre solo quindicenne all'avvento del piccolo Iverson. Con un padre fuggiasco e un padrino esperto di crack. Ha portato sul parquet le sofferenze di una vita, tatuate da monito sul suo corpo. Dopo aver visto omicidi, risse, la galera, per uno scontro di pelle, bianchi contro neri, nell'America dell'odio razziale, cosa mai poteva essere una botta presa su quel minuscolo corpo dai giganti del basket?
Amava il football Iverson, troppo “leggero”, quasi da femminucce il basket per un Iverson. Ma il talento era debordante fin da giovane. E quel talento era l'unica speranza per una famiglia povera e disastrata. E allora, con un paio di Air Jordan, via verso il campo da pallacanestro. Oddio campo, playground. Quell'ammasso di cemento, canestri rovinati, ferri vecchi, che ha raccolto le più grandi storie afroamericane e non. Lì in quei campetti sono entrate nella leggenda personalità straordinarie, perennemente in bilico tra l'arte della palla a spicchi e i mesti anfratti di violenza e droga. Pallone in mano, coca e pistola in tasca. Questo lo scenario delle Lost souls, le anime perse nella via verso la gloria. Ce l'ha fatta invece Iverson, perché figlio di una famiglia di schiavi ha imparato a prendersi quello che voleva. A non cedere di fronte a niente, neanche a Newport, dove ha cominciato con il basket e ha creato quel crossover divino poi perfezionato al college a Georgetown.
Il primo maggio '96 arriva l'annuncio atteso. Iverson approda nella Nba. Sceglie di confrontarsi con i più grandi. Con i più forti. Lui e Larry Brown a Philadelphia. E il rapporto, viste le personalità, non può che essere burrascoso. Scelgono addirittura di separarsi, ma lo scambio tra Allen e Geiger non va in porto. Restano entrambi e trovano un punto d'incontro. Tra l'egoismo e il gioco di squadra. Impossibile inquadrare Iverson, uno che viene dal ghetto, che ha sempre vissuto la vita in un perenne uno contro tutti. Chiedergli di giocare per gli altri è storpiarne l'io cestistico. Non esiste la parola team nella mente del numero 3. Solo il verbo attaccare. E lui attaccherà sempre, in campo come nella vita. Qualunque sia l'avversario. Che si chiami Shaq o semplicemente sia un bianco, grosso il doppio di lui, ubriaco, in un bar. Questo è Iverson. E con questo Iverson Philadelphia ritrova le Finals e espugna lo Staples Center di Los Angeles. Viola la casa di O'Neal e Bryant. Vincerà L.A la serie, ma quella notte la stella di The Answer emoziona il mondo. Non fu la prima volta, nemmeno l'ultima. Era la reincarnazione dell'uomo normale che va oltre i propri limiti. L'esempio della volontà che conduce oltre orizzonti non prospettabili. Sembrava dare a tutti la possibilità di un sogno. Volere è potere. L'urlo di Iverson allo Staples. Alla conferenza stampa per la celebrazione della sua elezione a Mvp della Lega si presenterà con una t-shirt nera con la lista dei più malfamati quartieri della Virginia. Casa sua. Senza cravatta.
Il sogno finisce più o meno in quella notte di maggio, perché da lì si deteriorano i rapporti con Brown, che emigra ai Pistons e Iverson perde la sua magia. Prova a rinascere nel '04-'05, quando torna cannoniere principe, cerca il giusto mix con un altro veterano in cerca di gloria, il pianista Webber, ma le ginocchia malconce dell'ex Kings e le cicatrici di Iverson fan sì che il binomio sia poco più di un'illusione. E allora via da Phila, per un tour nella Nba. Da Denver e Detroit, fino a Memphis, poi di nuovo a Philadelphia per un cameo di due mesi, interrotto per i problemi di salute della figlia. Da qui inizia il vortice di alcol, droga, violenza che inghiotte nuovamente Iverson, quasi fosse di nuovo bambino. Il parquet era stato la sua salvezza. Il basket una sorta di catarsi. Lui che ce l'aveva fatta a “non perdere l'anima”, ora è di nuovo nel baratro. Accetta i soldi del Besiktas, in Turchia, ma lascia. Il suo habitat non è quello. La voglia matta di pallacanestro non è sopita. Il 24 maggio 2012 alza la palla a due tra 76ers e Celtics. Il popolo si commuove. Il suo popolo. “Ho voglia di giocare a basket da morire”. Queste le parole di Iverson. Ora decide di salutare tutti. Torna a combattere. Stavolta non contro quei corpaccioni che popolano le aree Nba. Stavolta la guerra è più dura. Contro se stesso. The Answer.