All England Club Lawn Tennis and Croquet Club, London, Church Road. I Championships. O, più semplicemente, dal 1877, Wimbledon. Uno di quei casi in cui basta la parola per rendere subito l'idea di cosa rappresentino quei campi in erba per il tennis. L'atmosfera tipicamente inglese, le tenute rigorosamente bianche dei giocatori, il Royal Box, il silenzio del campo centrale, la Henman Hill, il suono senza filtri (come si direbbe oggi) della pallina schioccata dalla racchetta, la polvere di gesso che si alza dalle righe, le fragole con le panna, il campo numero due anche noto come cimitero dei campioni. Questo e molto altro è da sempre Wimbledon, lo Slam per antonomasia, il torneo che qualsiasi giocatore sogna di vincere, per alzare quel trofeo toccato da mani leggendarie e consegnato dal duca di Kent, il tutto in un susseguirsi ritmato di tradizioni che vengono ritualmente rispettate anno dopo anno.
Un po' come il giorno di riposo la prima domenica del torneo, retaggio di un passato in cui gli abitanti della zona pretendevano tranquillità almeno per ventiquattr'ore in due settimane. Come l'esordio sul campo centrale - il Tempio, secondo una definizione che profuma di sacralità - del detentore del titolo il lunedì alle ore 14 ora locale (il martedì per la campionessa uscente al femminile). Wimbledon, unico torneo dei vari sport di rilevanza mondiale a conservare solo due sponsorizzazioni ufficiali (una per le palline, l'altra per l'orologio) è un tuffo in un passato non anacronistico, che ha rigettato ogni forma di contaminazione per mantenersi fedele a se stesso. E' lo stile britannico, con l'unica eccezione della costruzione del tetto sul centrale per ovviare alle continue interruzioni per pioggia, che pure riempiono ancora di fascino l'atmosfera sugli altri campi, con i raccattapalle velocissimi nello stendere i teloni sull'erba, superficie sacra per il tennis d'Oltremanica. L'unicità di Wimbledon sta ovviamente anche e soprattutto nella superficie, scomparsa dagli altri Slam e dalla stragrande maggioranza dei tornei del circuito maggiore, qui invece curata in maniera maniacale, per far sì che non superi gli otto millimetri di lunghezza. Un'erba che va via via deteriorandosi nel corso delle due settimane di gioco, per diventare terriccio soprattutto a fondo campo, erba battuta secondo la celebre definizione di Gianni Clerici.
Wimbledon attraversa in un lampo la stagione del grande tennis, ma durante i Champonships il tempo sembra fermarsi in quei giorni di gioco, per far rivivere emozioni antiche, che sembrano riemergere da un passato meno lontano di quanto si pensi, e che fermano la frenesia che contraddistinge il resto dei tornei. Dal punto di vista tecnico, Wimbledon fa riscoprire gesti e schemi andati perduti, come il serve and volley, la battuta in slice, il chip and charge, la risposta bloccata, i passanti di controbalzo e l'incisività del rovescio a una mano. Nell'era delle grandi maratone da fondo campo, vere e proprie gare di braccio di ferro in cui l'avversario va piegato con la forza bruta dei colpi di rimbalzo, è possibile apprezzare nuovamente delizie come attacchi in chop, fondamentale che Roger Federer è forse l'unico esponente ancora in grado di eseguire, senza dimenticare i back di rovescio, da utilizzare lunghi e profondi per scendere a rete, o viceversa corti per chiamare l'avversario a districarsi in zone di campo ormai poco battute. Da Rod Laver a Bjorn Borg, da John McEnroe a Boris Becker, da Pete Sampras a Roger Federer, solo gli eletti del gioco sono riusciti a trionfare in sequenza sul centrale, in un ideale cambio della guardia con tanto di passaggio del testimone da un'era a un'altra. Fuoriclasse diversi tra loro, per personalità e stili di gioco, ma accomunati da un fattore imprescindibile: il talento, espresso prima con le vecchie racchette di legno, oggi con materiali ben più moderni, ma sempre al servizio di gesti bianchi, silenziosi, in perfetto stile Wimbledon.