Stanno calando le ombre della sera sul centrale di Wimbledon, quando Pete Sampras serve per il match nella finale dei Championships del 2000 contro Pat Rafter. Manca solo un punto a Pistol Pete (così soprannominato per via di un servizio eccezionale) per aggiornare ancora una volta una serie di record, alcuni dei quali già sgretolati con regolarità impressionante. Primo tennista a vincere Wimbledon per sette volte nell'era Open, primo giocatore a superare quota dodici tornei del Grand Slam vinti, dai tempi dell'australiano Roy Emerson, unico atleta capace di trionfare in ben quattordici delle diciotto finali Slam disputate. Quando anche lo splendido Rafter di quegli anni gli si arrende in finale, Sampras alza le braccia al cielo, senza esultanze particolari. E' emozionato, in tribuna ci sono i suoi genitori, sempre tenutisi a distanza dalle luci della ribalta, ma i suoi gesti sono quelli di sempre. Un po' di commozione, null'altro per questo fuoriclasse dalle origine greche capace di trasformare il Tempio nel suo personalissimo giardino tennistico, nel quale vincere tutte le partite giocate dal 1993 al 2000, eccetto quella dei quarti di finale 1996 contro l'olandese Richard Krajicek.
In un'epoca in cui i media cominciavano ad affacciarsi con insistenza e globalità nel mondo del tennis professionistico, Sampras ha rappresentato l'espressione più classica del giocatore da erba. Servizio potente e affidabile (differenza minima tra prima e seconda), diritto straordinario per coordinazione e precisione, rovescio a una mano old style, colpi di rete perfettamente tarati e uno tra gli smash più belli mai visti su un campo da tennis (da cinema alcuni in salto a piedi uniti), il bagaglio tecnico di Pete si adattava perfettamente all'atmosfera di Wimbledon, in cui sembrava (e in fondo lo è stato per anni) assolutamente invincibile.
La sua leggenda sull'erba di Londra nasce nel 1993 con la vittoria in finale contro il più esperto collega americano Jim Courier, preludio a una tripletta che lo vede spazzare via nei due anni successivi gente come Goran Ivanisevic e Boris Becker. Ogni stagione si ripeteva la medesima situazione: Pistol Pete, reduce dalle fatiche della stagione sulla terra rossa (mai scattata la scintilla con il Roland Garros, unico torneo che manca alla sua collezione extralusso), giungeva a Wimbledon stanco (era affetto da una forma lieve di anemia mediterranea) e, per alcuni addetti ai lavori, dato per prematuramente finito. E ogni anno a Sampras bastava mettere piede sul centrale il primo lunedì del torneo nella gara d'inaugurazione per ritrovare se stesso fino a lasciarlo due settimane dopo con il trofeo più prestigioso al mondo tra le mani.
Pioline, ancora Ivanisevic, Agassi, Rafter, tutti avversari sconfitti in finale dal 1997 al 2000, per alimentare una storia che sapeva già di leggenda. La rivalità con il Kid di Las Vegas culminò in una finale da sogno nel 1999 in cui Andre era dato per favorito. Finì tre set a zero per Pete, in un'ora e mezza di gioco. Più tardi Agassi dichiarerà: "non ricordo molto di quella finale, solo l'entrata e l'uscita dal campo, il resto sono immagini sfumate. Quando Sampras giocava così non c'era nulla da fare". Ma dalla vittoria del primo Wimbledon del nuovo millennio, la parabola di Pistol Pete è inesorabilmente discendente. Nel 2001 nemmeno l'erba amica dei Championships gli fa sconti: un giovane svizzero, all'anagrafe Roger Federer, lo costringe a capitolare negli ottavi di finale, al termine di un match epico, conclusosi in cinque set, tra servizi vincenti, serve and volley d'autore, risposte e passanti fulminei che incantano il pubblico inglese. Non solo Sampras, ma tutto il mondo ricorderà poi quella partita come quella del passaggio del testimone tra il vecchio e il nuovo Re dell'erba, anche se a Federer serviranno ancora due anni per inginocchiarsi vittorioso sul verde di Londra.
George Bastl. E' il nome di un altro tennista svizzero, ben più modesto del giovane Roger, che in uno dei primi turni della competizione del 2002 fa fuori Sampras da Wimbledon, in una gara disputatasi sul campo numero due, non a caso denominato "cimitero dei campioni", per l'incredibile sequenza di grandi del passato caduti su quel rettangolo verde. Pete abbandona a piedi quel campo maledetto, con un asciugamano a coprirgli testa e volta. E' l'immagine della resa. Non tornerà mai più all'All England Club da giocatore. In tanti, troppi forse, gli dicono di ritirarsi. "Non è il momento - ribatte lui - sono ancora in grado di vincere uno Slam". Difficile credergli, anche perchè i numeri sono tutti contro di lui. Da quella finale contro Rafter per il settimo titolo a Wimbledon e il tredicesimo Major, Sampras non ha più vinto un torneo, neanche uno di quelli che un tempo si aggiudicava in scioltezza.
"Don't ever underestimate the heart of a champions", avrebbe detto - parafrasando una massima del basket Nba - di Pistol Pete chi lo conosceva bene, quel Paul Annacone che sarebbe stato poi coach anche di Federer. Due mesi e mezzo dopo, agli inizi di settembre del 2002, contro ogni logica e pronostico, Sampras è in finale agli Us Open, ancora una volta contro Andre Agassi. Vince ancora Pete, per il suo quattordicesimo Slam, e il match point è la sintesi di un'intera carriera, servizio e voleè di rovescio che non lascia scampo all'avversario. E' la degna conclusione di un decennio irripetibile che lo fa entrare direttamente nella storia del gioco, di cui Wimbledon ha rappresentato la parte più importante e intensa.