Ricordo quel punto come fosse ieri. Ricordo quel gesto, quelle lacrime a stento trattenute da un’emozione fortissima, indescrivibile, fuori da ogni cosa. Ricordo quel giocatore, quel torneo, quella semifinale e quella finale come poche cose nella mia vita.
Un istante, un attimo: una carriera che ti passa davanti, dove pensi a tutto quello che è stato fino a quel momento, alle difficoltà superate per raggiungere quell’obiettivo che oramai sembrava irraggiungibile. Ed invece no. Lo sport insegna che nella vita non bisogna mai dire mai. Mai arrendersi davanti agli infortuni, alle avversità di una carriera che per quanto stramba non ti ha sorriso quanto avrebbe dovuto (colpa anche personale). Un attimo che dura un’infinità. Due doppi falli, su due match point: la fotografia perfetta di una carriera che si prende quasi gioco del tuo immenso talento, sul tuo colpo migliore. Poi la gioia. Il tuffo a terra. La corsa sugli spalti (l’unica, quella vera, il primo ad averlo fatto), l’abbraccio con chi ha condiviso il dolore e la sofferenza accanto a lui. Poi il trofeo.
Una storia nata per caso. Come le migliori storie, del resto. Goran Ivanisevic è uno dei tennisti più talentuosi del circuito, ma non a caso viene chiamato “Cavallo Pazzo”. Il suo smisurato talento croato viene intriso dalla follia di un popolo che spesso ha raccontato di eroi maledetti dal carattere, onnipotenti tecnicamente, ma mentalmente instabili, feriti da vicende che esulano dallo sport e dal campo. Ivanisevic non è da meno, anzi. Ne è l’emblema la sua carriera, fatta di vittorie a dir poco clamorose contro fenomeni della racchetta come Becker, Lendl, Edberg e Sampras, ma anche di tante sconfitte, dure, che inevitabilmente nel fragile carattere di Goran diventano un macigno insostenibile dal quali rialzarsi. Un eterno incompiuto, forse, fino a quell’attimo che lo consacrerà per sempre nella storia del gioco. Forse dello sport.
Goran Ivanisevic nella sua carriera conta ventuno tornei vinti, seppur minori rispetto a quelli che avrebbe potuto conquistare. Ventisette sono invece le sconfitte, dall’inizio della sua carriera a Firenze nell’89, fino a novembre del 1998, quando tutto sembra finire. Di Ivanisevic non c’è più traccia nel circuito: infortuni, problemi di testa, l’inizio dell’incubo. Tre finali perse di Wimbledon, l’eterno rimpianto. Due contro Sampras: la prima senza diritto di replica; la seconda lottata, ma lasciata al Campione. La terza contro Agassi, la prima in ordine cronologico: quella che fa più male, quella che abbatte maggiormente il Goran giovane rampante che stava scalando la scena Mondiale del tennis e gli tarpa le ali quando il volo iniziava a diventare più alto. Non era pronto, non ancora.
Dal 1999 a metà del 2001 la parabola discendente: l’infortunio alla spalla, la riluttanza verso l’intervento chirurgico, la voglia di continuare e di andare oltre il limite nonostante l’impossibilità talvolta di scendere in campo e giocare. Tante, troppe sconfitte. Tre anni lunghissimi, dove precipita oltre il numero 100 nel Ranking, prima di tornare in campo. Con una speranza ed un sogno nel cassetto: lasciare un ricordo positivo dell’Ivanisevic tennista, troppo spesso accostato più alle bizze in campo e fuori che all’incommensurabile talento. Un torneo, per testare la forma e la spalla, poi l’occasione della vita.
A volte la mano del destino è evidente in queste storie, è lampante. Gli organizzatori del torneo più famoso del Mondo fanno la miglior scelta della loro vita, regalando al Cavallo Pazzo di Spalato una wild card (un invito d'onore ai nobili decaduti) che difficilmente gli amanti di questo sport dimenticheranno (Ivanisevic resta ad oggi, in più di cento anni di storia, l’unico tennista ad aver vinto un torneo dello slam da invitato). Un’ultima occasione.
Ivanisevic è indemoniato, spinto da una voglia irrefrenabile di riscatto, di liberarsi di tutte le difficoltà superate negli anni bui. Godwin al primo turno: formalità. Poi la salita più difficile, quella che sembra impossibile da scalare: Moya, Roddick e Greg Rusedski nei tre turni successivi. Wimbledon s’accorge che qualcosa di magico sta per accadere. Nei quarti di finale c’è una sfida per esteti, ma anche per folli: gli si pone davanti Marat Safin, uno che in quanto a estro, fantasia e talento non è secondo a nessuno, con colpi di testa annessi. Assieme a Goran, ovviamente. Ivanisevic lo batte, non ci crede. Si toglie la maglia, impazzisce di gioia.
Poi l’apoteosi: la semifinale, sul Centrale, vede il croato opposto all’idolo di casa, l’erbivoro per eccellenza Tim Henman. Chi non ricorda la Henman Hill stracolma di persone che spingevano il beniamino locale? Ancora una volta il fato mette Ivanisevic alla prova, ed il croato risponde presente: la gara dura tre giorni, interrotta più volte dalla pioggia inglese che non sorride al numero uno locale, anzi. Gli toglie ritmo, gli insinua ansie e paure che diventano la forza del croato per ribaltare il match. Il mancino vellutato di Goran non lascia scampo al britannico. E’ finale. Ancora una volta.
Questa volta sul Centrale di Wimbledon c’è qualcosa di diverso. L’aria che si respira assomiglia a quella di casa, non alla solita aria snob londinese che c’è all’All England Lawn Tennis and Croquet Club la domenica della finale. Già, si gioca di lunedì. Novità interessante in quanto lascia i biglietti ai tifosi, quelli da Stadio. Rafter ed Ivanisevic si affrontano in una bolgia, testimonianza ultima dell’assoluta assurdità della situazione, oltre che del torneo tutto. Ogni punto è accompagnato dal boato del pubblico. I Reali si divertono, Jack Nicholson sobbalza dalla sedia all’ennesimo punto spettacolare a rete tra i due.
Tutti sanno come andrà a finire. E’ solo questione di tempo. Quinto set, 7-7. Ivanisevic fa il break. Tutta Spalato esulta come ad un gol di Boban o Suker ai mondiali. Il game finale è la ciliegina sulla torta. Quei due doppi falli raccontano delle ansie di un ragazzo che troppe volte è stato deluso da se stesso. Glielo si legge negli occhi. Lo si intravede nei movimenti del corpo, per sciogliere il braccio, prima dell’ultimo servizio. Goran è pronto. E’ il momento giusto. Stringe tra le mani il trofeo tanto bramato. Non ci crede. Non ci crederà fino a quando tornerà a casa e troverà ad accoglierlo una Nazione intera.
La dedica a Drazen Petrovic. Il resto è storia.