E’ complicato parlare di Enzo Ferrari, un pezzo della storia d’Italia, capitano d’industria d’altri tempi, ricco di luci ed ombre, personaggio dannatamente ingombrante anche per un semplice autore come chi vi scrive. Stiamo parlando di un fondatore d’azienda che ha cambiato le regole del gioco dell’automobilismo sportivo, di cui oggi ne è il mito in tutto il mondo. Ecco, possiamo solo immaginare come potesse essere l’interazione tra un uomo di questa importanza e chi per questa persona ha lavorato, contribuendo alla nascita ed alla messa su strada delle vetture più desiderate del mondo.
Parlare di Enzo Ferrari è difficile in quanto le sue luci e le sue ombre convergevano in una sola ed unica missione: le SUE macchine. E non ci limitiamo al fatto che le vetture portassero il suo nome, ma del fatto che la Ferrari azienda incarnava il Ferrari uomo, persona. Enzo voleva che le sue macchine fossero le più veloci del mondo, e tutti dovevano comportarsi per raggiungere questo scopo, a qualsiasi costo, anche personale, a cominciare dal Drake, passando per i piloti per giungere sino all’ultimo dei meccanici.
Per questo in fabbrica si aveva timore del Commendatore, piloti che il giorno prima avevano sfidato la morte (non esisteva la Formula 1 sicura di oggi) incredibilmente diventavano remissivi e completamente “dipendenti” anche in senso caratteriale al volere del capo. Dire che Ferrari fosse un decisionista sarebbe riduttivo, l’idea che si dovesse fare quello che diceva lui nel momento voluto e nel modo imposto facevano di Enzo l’incarnazione del concetto di assolutismo. Le idee, giuste o sbagliate non importava, quando venivano avallate dalla stessa persona che le creava, dovevano assumere contorni reali.
Certo, per noi oggi il nome Ferrari rappresenta uno dei brand più influenti al mondo, la scuderia più vincente della storia della Formula 1, quindi verrebbe da pensare che in qualche modo il “metodo” Enzo abbia effettivamente prodotto qualcosa di estremamente duraturo ed importante, e molti riconoscono al Drake (anche quelli con cui ci sono stati scontri importanti) che se a Maranello è cresciuta una realtà industriale tra le migliori del pianeta lo si deve principalmente al suo fondatore. Ma in realtà questo è stato la croce e la delizia dell’azienda, la quale se incarnava le volontà giuste del fondatore diveniva la più vincente dell’epoca di riferimento, al contrario si innescava un tunnel dalla quale si usciva solo a seguito di una ulteriore idea “positiva”. Questa è la dimostrazione della considerazione che Ferrari aveva della sua personalità, valutata al di sopra degli altri, con un ego smisurato. L’unica parvenza di condivisione o di ricerca (falsa) di un consiglio da parte di qualcun altro era in realtà una sorta di indagine “interna” per percepire il consenso della sua direzione; alla fine la decisione era sempre e soltanto sua.
Un esempio di ciò riguarda quanto accaduto nel rapporto professionale con Mauro Forghieri, per il quale passò l’intuizione giusta da parte di Ferrari di assumerlo come direttore tecnico a 26 anni. Con l’ingegnere modenese si sono conosciuti 25 anni in cui il Cavallino è stato protagonista dello sviluppo nella massima competizione automobilistica, portando a casa 11 mondiali, tra campionato piloti e costruttori. Allo stesso tempo, per le cose dette sopra, il rapporto con lo stesso si chiude definitivamente nel 1985, a causa della decadenza da parte del fondatore (ormai in vecchiaia) e di conseguenza dell’azienda. In quel periodo a Maranello si visse lo stesso trambusto che si ha quando cade un imperatore, per il quale tutto funzionava alle sue dipendenze e nel momento in cui “cadeva” venivano meno tutti quegli automatismi, quelle decisioni, quel potere in grado di tenere la barra dritta. Dunque nel 1985, con l’uscita di Forghieri, si apre uno dei periodi più lunghi di buio della Ferrari, che perdurerà sino all’epoca di Michael Schumacher.
Uno degli aspetti più particolari del Drake era rappresentato dal tipo di rapporto che aveva con i piloti. Per Enzo, esistevano solo le vetture Ferrari, quelli che le guidavano erano dei semplici dipendenti che erano pagati per spingere al limite quei mostri a quattro ruote, erano degli accessori delle auto. Inoltre, in un periodo in cui le corse non venivano minimamente lette sotto l’aspetto della sicurezza, a cominciare dagli stessi piloti, la massima espressione della vettura doveva spingersi anche aldilà di quanto umanamente possibile da chi aveva questo compito.
Un caso lampante fu quello di Lorenzo Bandini (di cui il nostro racconto lo trovate qui) e dell’incidente del 1967 alla chicane di Montecarlo, per le cui conseguenze il pilota italiano perse la vita giorni dopo. La 312 F.1 messa in pista per quel campionato era una vettura maledettamente potente e difficile da gestire lungo le curve del Principato ed il pilota italiano, che dopo molti giri sembrava poco vigile per via della stanchezza, non fu fermato, nessuno mosse un dito. In un periodo in cui la sicurezza era un optional, bisognava spingere le vetture al massimo, a qualsiasi costo.
A questo bisogna aggiungere anche quell’importanza che i piloti stessi assumevano quando diventavano "quelli" di Enzo Ferrari. Essere un perfetto esecutore della massima espressione delle sue vetture, portava agli stessi una sorta di identificazione superiore nell’ambiente dell’automobilismo sportivo. Questo dunque potrebbe essere uno degli aspetti che ha portato ad instaurare un certo tipo di rapporto tra il Commendatore e chi quelle vetture doveva spingerle al massimo. Questo portava anche a dei gesti plateali da parte del Drake, tra cui la chiamata direttamente all’Abarth, per la quale lavorava Arturo Merzario che Ferrari voleva alla sua corte, oppure quando indicò candidamente a Ferruccio Lamborghini di occuparsi di trattori lasciando perdere l’automobilismo sportivo. Il mestiere di Enzo Ferrari era quello di fare le vetture più veloci del mondo, ergo l’azienda Ferrari aveva questo scopo, che andava conseguito. Viveva nell’eterno confronto con gli avversari, che andavano battuti senza inutili discussioni. I piloti Ferrari potevano vincere al Nurburgring, alla Targa Florio, a Le Mans, e ricevere un trattamento di “indifferenza” da parte del capo per il quale si era solo fatto il proprio dovere.
Forse per tutto questo il Drake non “poteva permettersi” di avere un certo tipo di rapporto con i suoi piloti. In quell’epoca gli incidenti e le disgrazie erano all’ordine del giorno. I piloti con cui l’interazione era particolare si contano sulle dita di una mano, a cominciare da Gilles Villeneuve. Il canadese era un indomito, nella vita e soprattutto in macchina, si prendeva delle libertà che sarebbero state motivo di licenziamento in tronco in un periodo in cui in Formula 1 un pilota poteva gareggiare per la stessa squadra anche solamente per una manciata di gare. Il motivo risiede nel fatto che Villeneuve ricordasse il Ferrari pilota, anche lui pazzo, sopra le righe, sempre al limite. E questo al Commendatore piaceva da morire, era quello l’atteggiamento con cui voleva che si guidassero le sue macchine. Altro pilota particolare per Ferrari può essere considerato Clay Regazzoni, del quale colpiva il modo di guidare un po’ garibaldino, come piaceva a lui.
L’ossessione del suo progetto infinito nell’automobilismo ha le sue massime espressioni durante le gare stesse. Questa iper-competitività veniva istaurata anche all’interno del team, tra i piloti ma anche tra i progettisti e i tecnici di vario titolo, con l’intento di tirare fuori il meglio da ogni singola risorsa della Scuderia. Inoltre il controllo di quanto succedeva in pista e nel box era spasmodico, pur essendo presente al circuito solo durante le prove del Gran Premio d’Italia e quando si testava sulla pista di Fiorano. In tutte le altre gare vi era un costante aggiornamento mediante sue persone di fiducia all’interno del box; va considerato inoltre che all’epoca non vi erano telefonini e internet, quindi affinchè potesse verificarsi tutto ciò bisognava che il centralino della pista si mettesse in contatto con una chiamata internazionale, sperando che le linee non fossero sovraccariche. E in tutto questo, qualora ci fosse qualcosa che non andava era il primo a tirare la giacca a chi di dovere, tipicamente agli ingegneri o agli uomini della dirigenza. Era infatti difficile che se la prendesse con i meccanici, di cui conosceva il lavoro, i turni pesanti e cosa volesse dire eseguire quel tipo di mansioni, vista la gavetta con la quale si era formato il Commendatore.
Sarebbe bello vedere Enzo Ferrari nell’epoca della sicurezza o nelle scaramucce tra Vettel ed Hamilton stile Baku 2017. Interessante sarebbe l’interfaccia con il mondo mass-mediatico di questa epoca, da cui anche la Formula 1 è stata “contagiata”.
In conclusione va detto che come tutte le persone difficili, Enzo Ferrari è sicuramente una di quelle che ha decisamente spinto all’estremo se stesso e l’azienda. Le vetture del Cavallino sono una estensione di Ferrari persona, un carattere, un'ossessione chiamata azienda, poi diventata mito nel corso degli anni.