In campo nel momento in cui scrivo quest'articolo, l'Italia si sta giocando la qualificazione al prossimo Mondiale contro la Moldavia, quasi certa ormai di dover obbligatoriamente passare per i playoff. La vittoria della Norvegia per 4-1 contro l'Estonia ci condanna a una flebile, se non impossibile, speranza: la nazionale azzurra dovrebbe vincere 20-0 questa sera e poi battere i norvegesi nello scontro diretto. Ma cosa è successo alla nazionale campione del mondo del 2006? Come siamo finiti da essere una delle nazionali principali nel Mondiale a rischiare di non qualificarci per la terza volta consecutiva? Proviamo a capirlo insieme.
Italia-Svezia: il primo passo verso il baratro
Il 13 novembre 2017 non è solo una data.
È un ricordo che ancora pesa, un silenzio che si sente anche adesso, sette anni dopo.
San Siro, pieno come un tempio, si svuotò in un istante. L'Italia, complice la sconfitta per 1-0 della partita d'andata, cercava in tutti i modi un gol che non arrivava, tra le preghiere dei tifosi sugli spalti e a casa. Poi il triplice fischio, la parola fine, la Svezia a festeggiare e i giocatori azzurri in lacrime. Per la prima volta dal 1958, la Nazionale non sarebbe andato al Mondiale, e solo pensarlo era assurdo.
Provate a vederla in questo modo: quel giorno avevo 12 anni, ero cresciuto con le immagini del rigore di Grosso a Berlino 2006, vedevo il Mondiale come un sogno. E poi, d'improvviso, crolla tutto. Da rifugio, il calcio era diventato una delusione, un dolore.
Ventura divenne il nome su cui scaricare tutto. Ma a distanza di anni, non sembra più così semplice. Non era solo lui. Era un sistema intero che non sapeva più generare entusiasmo, che aveva perso la connessione con chi lo amava.
Quel 0-0 contro la Svezia fu più di una partita. Per chi era ragazzo, fu un sintomo di crescita, un sintomo che portò le nuove generazioni a capire che il calcio sa essere crudele.
Da Luglio 2021 a Marzo 2022: il nuovo crollo
Come tutti i migliori racconti, c'è sempre una rinascita.
E, per l'Italia, lo è stata l'estate 2021.
L’Europeo itinerante, l’Italia che cantava “Notti magiche” per la prima volta davvero da adulti.
Lì sì, abbiamo rivisto la luce.
La squadra di Mancini correva, rideva, giocava un calcio leggero e coraggioso. Si arriva alla finale di Wembley, 11 luglio: Donnarumma para, l’Italia è campione d’Europa.
Abbracci, lacrime, cori per le strade. Per qualche settimana, il Paese tornò bambino e noi, quella generazione che aveva conosciuto solo le delusioni, ci siamo sentiti finalmente parte di qualcosa di grande.
Ma forse quella felicità era troppo perfetta, troppo breve.
Perché neanche un anno dopo quella luce si spegne di nuovo.
24 marzo 2022: gli Azzurri affrontano la Macedonia del Nord, nuovamente ai playoff di qualificazione al Mondiale.
Sembrava impossibile, eppure siamo ancora lì, a sperare di qualificarci. Poi il destino bussa, di nuovo, con crudeltà, e uccide di nuovo i nostri sogni.
Ancora fuori dal Mondiale. Ancora increduli.
L’eco del Barbera di Palermo era diversa da quella di San Siro: meno rabbia, più smarrimento, più incertezze.
Come se ci fossimo abituati alla mancanza. Come se la speranza, ormai, avesse imparato a farsi piccola per non soffrire troppo. Ed eravamo tornati di nuovo nel baratro.
E ora?
Oggi chi ha vent’anni ha visto l’Italia al Mondiale una sola volta, nel 2014, e non ha avuto nemmeno il tempo di emozionarsi, causa l'uscita ai gironi.
Siamo cresciuti con le foto di Cannavaro che alza la coppa, ma non abbiamo mai sentito davvero quell’orgoglio.
Eppure, nonostante tutto, aspettiamo ancora.
Aspettiamo i playoff, le convocazioni, le nuove generazioni.
Ci aggrappiamo a ogni segnale, a ogni “forse questa è la volta buona”.
Perché essere tifosi dell’Italia oggi significa credere anche quando non c’è motivo.
Significa sognare un Mondiale che non abbiamo mai vissuto, ma che immaginiamo ogni volta che sentiamo l’inno.
E il 13 novembre resta lì, come una cicatrice che brucia ma che serve a ricordare dove siamo caduti, dove siamo morti e da dove dobbiamo ripartire.
Forse non siamo più gli stessi di allora.
Forse non crediamo più agli eroi, ma ai progetti, alla pazienza, ai cicli che si costruiscono piano.
Eppure, se chiudiamo gli occhi, tutti abbiamo ancora dentro quel bambino che sognava le notti d’estate con la bandiera sulle spalle. Tutti speriamo di tornare a piangere, prima o poi, come abbiamo fatto quell'estate del 2021. Ma, stavolta, per un Mondiale.
E allora sì, forse non abbiamo visto l’Italia ai Mondiali.
Ma abbiamo visto cosa significa amarla anche quando non c’è.
E questa, in fondo, è la parte più vera del tifo.
Che siano playoff, che sia qualificazione diretta o qualunque cosa sia, la maglia Azzurra rappresenta amore. E noi, che a 20 anni non ci siamo mai goduti un campionato del Mondo da protagonisti ma solo come spettatori esterni, la amiamo ancora nonostante tutto.