L'importanza di un allenatore in una squadra è da sempre argomento di discussione nel mondo del calcio: alcuni ritengono che sia fondamentale, altri che la sua incidenza dipenda soprattutto dal materiale umano a disposizione, ossia i calciatori.
Difficile trovare una risposta adeguata, probabilmente la realtà sta nel mezzo, ma quello che si può azzardare senza incorrere in errate valutazioni è che, nella maggior parte delle situazioni ed indipendentemente dai risultati, sia possibile distinguere un grande allenatore da un buon tecnico.
Da questo punto di vista, Roberto Mancini appartiene senza dubbio alcuno alla prima categoria. Nella sua ormai più che decennale carriera da allenatore, ha sempre dimostrato di avere le idee chiare e di anteporre il suo progetto tattico agli uomini presenti in rosa, chiedendo alle sue società investimenti mirati al raggiungimento della sua idea di calcio.

Ma quali sono le fondamenta su cui si costruisce il suo gioco? In primo luogo la difesa a 4, scelta preferita da pressoché tutti i grandi club del calcio moderno. Centrali utili in fase di costruzione, linea alta, terzini molto larghi e pronti a spingere per creare superiorità numerica nella metà campo avversaria. E, nella sua seconda esperienza nerazzurra, Mancini continua a prediligere questa soluzione nonostante la presenza di Ranocchia e Juan Jesus, non certo affidabili come i Kompany o i Samuel di turno, e nonostante la necessità di adattare centrali a terzini, vedi Campagnaro. Tutto questo, ovviamente, prevede molti rischi, dovuti alla necessità dei singoli interpreti di entrare nei meccanismi e di sviluppare caratteristiche non sempre presenti nelle loro corde.
Infatti, al termine della gara di ieri sera, il tecnico ha analizzato gli errori della linea difensiva che hanno poi portato al pareggio degli scozzesi: "Dobbiamo imparare che non bisogna andare indietro e indietro, se fai così prima o poi il gol lo prendi". Insomma, è necessario che tutti partecipino alla fase di non possesso, a cominciare dagli attaccanti, per recuperare prima il pallone ed evitare che gli avversari arrivino pericolosamente sulla tre quarti nerazzurra.

Fatta salva la difesa a 4, dal centrocampo in su sono molte le variabili sperimentate dal Mancio nelle sue varie esperienze in panchina: dal 4-2-3-1 al 4-3-3, passando per 4-3-1-2 e 4-3-2-1, il tecnico jesino chiede alla sua squadra di interpretare in maniera adeguata più moduli, spesso anche nell'arco della stessa gara. Anche qua, comunque, partendo da alcuni punti fermi, come un centrocampo muscolare ma in grado anche di fare gioco -come non pensare a Yayà Tourè, definito da Mancini come uno dei più forti giocatori del mondo, e infatti sogno più o meno nascosto del prossimo calciomercato estivo per la sua Inter 2.0- e un attacco composto da 3 o 4 uomini capaci di interscambiarsi, occupare il campo interamente in larghezza e agire tra le linee avversarie. Requisito, l'ultimo, che Mancini ha ritrovato in Shaqiri, che sempre più nelle ultime gare agisce da trequartista alle spalle delle punte.
Una squadra, quella che predilige il tecnico, padrona del campo e del pallone, che eviti quanto più possibile lanci lunghi e giunga in fase di finalizzazione utilizzando quanti più uomini possibile.

Certo, nel corso della sua carriera diverse sono state le critiche rivolte a Mancini, a partire dai tempi della Fiorentina, quando le accuse di scarso impegno da parte dei tifosi lo spinsero alla dimissione dopo sole 17 partite.
L'ultima, invece, arriva da parte di Zlatan Ibrahimovic per bocca di Mino Raiola: "Zlatan di lui criticava il fatto che si adatta troppo all'avversario e non impone un sistema suo"; in questo caso, però, forse Ibra non ha del tutto ragione, per tutte le motivazioni fino ad ora citate.
Di sicuro uno dei migliori tecnici italiani, Mancini ha sviluppato negli anni anche una mentalità di respiro europeo, grazie alle esperienze turche e soprattutto inglesi, che fanno di lui un vero proprio manager alla Ferguson, con competenze anche di mercato e sul settore giovanile.
Tredici trofei in tredici stagioni sono per ora un curriculum di tutto rispetto, anche se nel palmares mancano ancora trofei internazionali. Va anche detto, però, che il Mancio non ha mai potuto disporre di rose adeguate per competere nei maggiori palcoscenici europei, e del resto il suo City ha sempre pagato l'inesperienza dei suoi giocatori.

Per il momento, nella sua seconda esperienza nerazzurra, i risultati non gli stanno dando ragione, ma con il ritorno di Mancini il popolo di San Siro ha di certo potuto apprezzare un gioco ritrovato e una minor confusione nella gestione della gara, qualità che permettono di sopportare con più fiducia le ancora notevoli carenze del reparto arretrato. Tutti, infatti, sperano che il tempo dia ragione al tecnico, e che il lavoro dei prossimi mesi permetta di superare anche queste difficoltà. Appunto, il tempo, termine che si sposa bene con "progetto" e con "idee". E Roby Mancio, da questo punto di vista, sa come si fa.