Andrea Ranocchia è dell'Inter il simbolo del nuovo corso, la fascia al braccio, l'uomo di riferimento di un reparto arretrato per forza di cose diverso dal passato. Diventare leader, questo il compito non semplice affidato al ragazzo esploso a Bari e ora lanciato alla conquista di Milano. La piazza ingombrante e un carattere incline a momenti di vuoto, di assenza. L'espulsione sciocca con il Dnipro, le fatiche con la Roma, Ranocchia punta a trovare la giusta continuità per consacrarsi tra i grandi nel ruolo, ripercorre le orme gloriose di chi, qui, ha alzato trofei, vinto.
Alla Gazzetta dello Sport, in una lunga intervista, il centrale racconta il passaggio, inevitabile, da Mazzarri a Mancini. Il necessario punto di rottura per restituire linfa a un ambiente ormai abituato a medi quartieri e destinato invece a lidi differenti "Non voglio dare colpe all’allenatore, non sarebbe corretto: parlo di responsabilità, sue ma anche nostre. Mazzarri era molto tartassato: la tensione c’era e ce l’avevamo tutti. Troppa. Forse lui doveva gestire meglio tutta questa pressione, ma anche noi. Solo che dentro alla nostra squadra ci sono anche ragazzi di 21 e 22 anni, che fra qualche anno saranno top player europei ma pur sempre 21-22 anni hanno... E se appena sbagli un pallone senti borbottare, ecco, non è esattamente facile. I fischi di San Siro? Noi abbiamo fatto mancare ai tifosi i risultati, ma è anche vero che se qualcuno poteva darci una mano, beh, non è successo".
"Mancini ci crede da morire: a tutto ciò che si può pensare di buono per l’Inter futura, a tutti noi e alla Champions. Lo vedi quando ci parla: nelle riunioni, singolarmente, quando fa tattica e il resto, trasmette serenità e fiducia. E in più ha vinto: e questa cosa conta, pesa".
L'obiettivo primario resta il ritorno in Champions. Come Mancini, anche Ranocchia studia le due possibili vie per raggiungere l'agognata Coppa. Il terzo posto resta argomento complesso, mentre è stuzzicante la strada concessa dall'Europa League, in passato snobbata dal costume italico e ora sorgente nel deserto "La via preferita potete immaginare qual è: alzare un trofeo sarebbe splendido. E credo che, rispetto al campionato, proprio questa sia la strada più accessibile. Poi, è chiaro: serve fortuna nei futuri sorteggi e che la squadra sia al meglio nei momenti delle sfide in campo".
Con la Roma una sconfitta, ma anche un'inversione di rotta, una squadra capace di recuperare due volte lo svantaggio, in grado di giocare per vincere sul campo di una delle pretendenti al titolo "Fai il due a due e vuoi vincere. Ce la giochiamo e basta. Negli ultimi due mesi entravamo in campo con tanta pressione e tensione. Era una “guerra” continua: titoli, titoloni, critiche. C’era bisogno di maggior serenità".
I punti di riferimento, da Samuel, il modello recente, a Facchetti, il simbolo del passato "Walter Samuel. E in assoluto Giacinto Facchetti. E sa perché? Perché credo nel poter dare messaggi positivi, perché bisogna avere più figure che stanno dentro un calcio capace di mostrare un’etica, perché esiste e deve esistere un modo di comportarsi sano. Il rispetto dell’avversario, dell’arbitro, del compagno che magari ti para il culo in campo. Qualcuno ha detto che dovrei fare delle sfuriate proprio lì, in campo: ma non si rendono conto che tutto è cambiato, che hai mille telecamere? E, soprattutto, pensano che fare il duro con un compagno davanti a tutti ti dia l’etichetta di grande giocatore? Vede: se io ho qualcosa da dire a Juan Jesus, per esempio, aspetto la fine della partita, lo prendo da una parte e gli spiego come avrei fatto. E non glielo direi mai in faccia a tutti, allo stadio e alle telecamere. No. Essere una bella persona è la cosa prioritaria: così mi hanno insegnato i miei genitori e così insegnerò a chi vorrà ascoltarmi".
Mancini cerca la prima vittoria in campionato, domenica, contro l'Udinese, di Stramaccioni e Stankovic, due vecchi, due amici. Ranocchia stringe la fascia e medita il rilancio. L'Inter, lontana, medita il riscatto.