"Abbiamo visto tutti cosa è successo. Non capisco come dopo quattro minuti di colloquio tra arbitro e assistente non sia cambiato nulla. Il Brasile è stato eliminato non giocando a calcio".
Carlos Dunga non ci sta e, al termine della sconfitta rimediata contro il Perù, attacca l'operato dell'arbitro e dei suoi collaboratori, rei di non aver visto il nettissimo fallo di mano con il quale è stato realizzato il gol vittoria dai peruviani, che è valso inoltre l'eliminazione dalla Copa America del Centenario al suo Brasile. La patria del football si risveglia con l'ennesima disfatta di un movimento che stenta a riprendere il suo corso vincente; dal tracollo mondiale di due anni fa all'eliminazione di quest'anno, passando dalla sconfitta ai rigori contro il Paraguay in Cile: un tunnel di delusioni cocenti dal quale i verdeoro non riescono proprio ad uscire.
Inevitabile, certo, tra la rabbia e la delusione per ciò che non è stato e la frustrazione di un'eliminazione a dir poco clamorosa, che il tecnico della Seleçao si aggrappi in uno dei momenti più difficili della sua gestione - non essendo l'unico - ad un episodio che distoglie, seppur per pochi attimi, l'attenzione dalla pochezza dimostrata dalla sua squadra, incapace anche ieri sera di impensierire un Perù tutt'altro che ostico. Al Brasile mancava la sua stella più lucente, Neymar, ma non può considerarsi una valida attenuante. Il tentativo di deresponsabilizzazione nei confronti della squadra tentato dallo staff alla vigilia del torneo, quando si provava a stemperare ed alleviare la pressione abbassando i riflettori su una rosa in fase di allestimento e costruzione, è fallito miseramente. Così come fallirà, con ogni probabilità, il tentativo di Dunga di distogliere l'attenzione dei media dall'eliminazione rimandando il discorso all'Olimpiade di Rio, vero obiettivo dei verdeoro in questa lunghissima estate.
Non è bastata - a giusta ragione - la goleada contro Haiti, nella quale i brasiliani hanno fatto soltanto il loro dovere contro una squadra che si è dimostrata ampiamente inferiore a tutte le compagini del girone: quel che doveva essere un Brasile cinico, difensivo e che avrebbe dovuto sfruttare la qualità degli uomini d'attacco per improvvisare e provare a confondere le idee degli avversari, è stata una tattica che si è ritorta clamorosamente contro, lasciando intravedere in quelle poche folate offensive concesse ai pentacampeao da Ecuador e Perù confusione e scarso feeling tra i protagonisti. La critica, nella patria del calcio, sarà a dir poco aspra e cruda e c'è addirittura chi parla anche di un imminente licenziamento di Dunga, che nel biennio post trauma Mineirazo non ha saputo dare identità ad una squadra visibilmente figlia delle sue paure e della sua povertà tecnica, che non riesce ad uscire da un vortice di delusioni scottanti che continuano a flagellarne l'animo. La mancanza di un leader tecnico, ed altresì carismatico nello spogliatoio, la si avverte negli occhi impauriti di una squadra che nel momento del bisogno si guarda attorno, in campo e non solo, spaesata come Alice nella tana del bianconiglio.
"Non sono spaventato per il mio futuro. Si tratta di un processo di transizione e bisogna avere pazienza. Il tifoso brasiliano è abituato a vincere e lo vuole subito. Rio? Dobbiamo conquistare il titolo, cercheremo di farcela, per vincere una medaglia che ci manca nel nostro palmares". Dunga non si sente in discussione, in apparenza, e prova a rilanciare la candidatura della sua nazionale in vista dell'appuntamento casalingo, dove la pressione sull'Olimpica sarà a dir poco asfissiante e dove soprattutto la ferita lancinante aperta dalla Germania è ancora aperta e più che sanguinante. Il respiro agonico ed il balbettio tecnico-tattico dei brasiliani continua: l'Olimpiade arriva puntuale, bivio ultimo di una generazione di non-fenomeni che è chiamata ad un riscatto ad un passo dal baratro.