"Il giorno in cui il tifo ha perso la voce"
L'autobus dei tifosi del Pistoia a seguito della sassaiola

Ieri, per chi ama lo sport, il rumore più forte è stato il silenzio.
A Pistoia non si parla di punteggi o tabellini, ma di una vita spezzata sulla strada del ritorno.

Doveva essere solo una tranquilla partita di Serie A2 tra la Sebastiani Rieti e la Estra Pistoia, e invece è terminata in tragedia.
Il 73-88 maturato ieri dai toscani in casa del Rieti è l'ultimo degli argomenti di cui si è parlato, e probabilmente è la cosa meno di rilievo.

Perché quella che doveva essere una normale domenica di sport ha visto consumarsi una delle pagine più nere del basket in Italia e, probabilmente, dello sport in generale.

L'agguato al pullman dei tifosi

Al termine dell'incontro, come di consueto, l'autobus che trasportava i tifosi dell'Estra Pistoia si era avviato lungo la strada del ritorno quando, all'altezza dello svincolo di Contigliano, è stato assalito da un gruppo di persone.
Perché no, non possiamo definirli tifosi, o forse non possiamo definirle nemmeno persone. Questi sono dei criminali, degli assassini, delle persone che confondono i palazzetti con degli scenari di guerra.

L'autobus dei tifosi pistoiesi è stato preso a sassate, decine di colpi che hanno impattato sui finestrini e sul parabrezza dell'autobus. E già qui sarebbe stata una notizia paranormale, ma non è finita qui.
Una pietra aguzza ha trapassato il parabrezza, colpendo in pieno l'autista Raffaele Marianella. Raffaele in quel momento non era alla guida, era seduto sul sedile del "secondo autista", in quanto nei viaggi lunghi gli autisti si devono dare il cambio alla guida.
Raffaele è stato colpito da quella pietra, ne è rimasto ucciso. Raffaele è morto accompagnando dei tifosi ad una partita di basket, e forse a lui il basket nemmeno piaceva.
Raffaele è solo l'ennesima vittima di una violenza ultras ingiustificata, l'ennesima vittima di gesti che poco hanno a che vedere con il tifo.

Quando il tifo smette di essere amore

Ci sarebbe piaciuto scrivere di tiri da 3, di rimonte, di partite al cardiopalma, di abbracci a fine gara. E invece ci troviamo a dover raccontare di vetri rotti, sirene e lutti. E questo non è accettabile.

Non è più un brivido da trasferta, si è trasformato in paura. Ogni rumore di vetro rotto, ogni gesto che eccede ci ricorda che chi segue la partita potrebbe non tornare a casa. E qui, forse, dovremmo capire che qualcosa si è spezzato. Perché l'ansia e la paura non possono sostituire l'eccitazione, il divertimento, altrimenti abbiamo sbagliato tutto.

Il tifo è amore incondizionato verso una squadra, verso i suoi colori; il tifo è passione, è spirito di sacrificio per qualcosa a cui teniamo con tutto il cuore. Il tifo NON è odio, NON è violenza, NON è morte.

E infatti, loro non sono tifosi. Non chiamateli tifosi.
Non chiamateli appassionati.
Non chiamateli fratelli di curva.
Chiamateli per ciò che sono: criminali, violenti che odiano ciò che dicono di amare.

Lo sport che vogliamo non è quello che divide, ma quello che a fine partita ci fa abbracciare, quello che da bambini ci faceva battere il cuore a mille.

Il tifo oggi ha perso la sua voce. Ma il silenzio di oggi vale più dei cori.
Oggi bisogna fermarsi, guardarsi dentro e capire che lo sport non ha bisogno di vincitori, ma di persone capaci di rispettarsi.
Solo allora, forse, saremo in grado di chiamarci "tifosi", e non complici di un odio che non ci appartiene.

In memoria di Raffaele Marianella, ennesima vittima innocente della follia violenta di criminali che non conoscono la parola "amore".

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