Attraverso un tweet asciutto, perfettamente in linea con il personaggio, Manu Ginobili ha annunciato ieri il suo ritiro dall'attività agonistica. A quarantuno anni suonati il fuoriclasse da Bahia Blanca dice basta, dopo una lunga estate di riflessione. In tanti, all'ombra dell'Alamo, avrebbero voluto che l'argentino continuasse per un'altra stagione (era ancora sotto contratto), ma Manu ha deciso di salutare, chiudendo un'epoca, non solo ai San Antonio Spurs, ma in tutta l'NBA.
"Oggi, tra sentimenti ampiamente contrastanti, annuncio il mio ritiro dalla pallacanestro. Immensa gratitudine nei confronti di tutti (famiglia, amici, compagni di squadra, allenatori, staff, tifosi) coloro che sono stati coinvolti nella mia vita negli ultimi 23 anni. E' stato un viaggo favoloso, molto oltre i mie sogni più sfrenati", il tweet di Ginobili, la cui decisione di salutare il basket giocato era stata anticipata da giorni dai principali network americani. Innumerevoli i messaggi di ringraziamento che lo stesso argentino ha ricevuto poco dopo l'ufficialità del ritiro. Dai suoi Spurs al commissioner NBA Adam Silver, da LeBron James a Dirk Nowitzki, tutti a omaggiare un futuro Hall of Famer, che per sedici anni ha incantato il mondo della pallacanestro a stelle e strisce, nella sua fantastica avventura in maglia neroargento. Ma prima e oltre l'NBA, c'è stato un Manu Ginobili "europeo", che gli italiani hanno imparato a conoscere bene. Gli esordi a Reggio Emilia, la consacrazione con la Virtus Bologna di Ettore Messina, con cui trionfa in Eurolega nel 2001, per finire con l'oro olimpico di Atene 2004, in finale proprio contro gli azzurri di Charlie Recalcati, dopo aver messo a al tappeto la Serbia con un magico buzzer beater in semifinale. Il Ginobili del 2004 era già diviso tra due mondi, quello NBA, territorio esplorato da due stagioni e quello della sua nazionale, della Generaciòn Dorada che ha fatto grande l'Albiceleste. Ma è stato sul palcoscenico americano che Manu è diventato riconoscibile a tutti gli appassionati, diventando un fenomeno globale, simbolo di una pallacanestro poco fisica, ma certamente fantasiosa e vincente. Quattro i titoli vinti con i San Antonio Spurs (2003, 2005, 2007, 2014) di Gregg Popovich, Tim Duncan e Tony Parker, la dinastia per eccellenza dell'ultimo quindicennio.
Ginobili ha impiegato relativamente poco tempo a imporsi anche in NBA. Al di là del particolarissimo periodo di apprendistato alla scuola di Pop, il mancino da Bahia Blanca è diventato presto un punto di riferimento degli Spurs, per anni miglior franchigia NBA. Già nel 2005, nelle Finals vinte in gara-7 contro i Detroit Pistons di Larry Brown, avrebbe meritato il riconoscimento di MVP, poi finito al sodale e grande amico Duncan. L'NBA avrebbe però saputo come ricompensarlo, con un'ammirazione e una stima crescente per un professionista esemplare, giocatore incantevole e sempre in grado di tornare sopra il pelo dell'acqua quando in tanti lo davano per colpito e affondato. Tanti i momenti che hanno contribuito a costruire la leggenda di Ginobili: dalle serie contro i Phoenix Suns di Mike D'Antoni e Steve Nash, ai suoi tiri impossibili e a segno nei momenti cruciali delle gare di playoffs, fino alle Finals del 2014, quelle del beautiful game, degli Spurs che asfaltano la corazzata Miami Heat (di LeBron James) con un gioco offensivo per esteti purissimi. Gli ultimi anni hanno comunque regalato agli appassionato pillole del solito Manu. Passaggi stupefacenti, da geniale mancino, una leadership silenziosa ma indiscutibile, clutch shots, il meglio del repertorio distillato qua e là, come i minuti concessigli da Popovich, consapevole come nessuno dell'importanza dell'argentino. Duncan, Ginobili, Parker (volendo anche Leonard): si chiude definitivamente un'era ai San Antonio Spurs, chiamati a gestire una transizione delicatissima, facendo a meno del loro numero venti, molto più importante di quanto si sia sottolineato in quindici anni di successi e uomo della provvidenza come nessun altro. Ginobili saluta, lasciando in eredità un miriade di istantanee, dalla schiacciata contro Miami in gara-5 delle Finals 2014, alla stoppata su Harden in gara-5 contro i Rockets nel 2017, passando per quel time-out allenato a Città del Messico, qualche anno fa in una gara di preseason. Chissà che non sia quella la sua prossima destinazione: coach, magari proprio degli Spurs, in una suggestiva staffetta con il mentore Popovich.