Ora i Golden State Warriors sono davvero una dinastia. Dopo anni di lavoro e (re)building certosino, i californiani sono nell'empireo NBA: tre titoli in quattro stagioni dicono tantissimo della costanza di rendimento dei Dubs, forse meno di quanto la squadra allenata da Steve Kerr sia diventata una corazzata, solidissima in difesa e spettacolare in attacco. Già, Steve Kerr. E' lui l'uomo dei record, l'MVP della panchina che ha trasformato i pur competitivi Dubs di Mark Jackson in una macchina di pallacanestro, oggi inarrestabile con Kevin Durant approdato nella Baia.
4-0 ai Cleveland Cavaliers di LeBron James nelle NBA Finals 2018. Un dato che dice tutto, che racconta della frustrazione del Prescelto (che ha rivelato di essersi rotto una mano dopo gara-1) per non riuscire a competere contro questa Golden State, una squadra che negli anni ha aggiunto alle pesche al Draft (Klay Thompson, Steph Curry e Draymond Green) un free agent extralusso come Kevin Durant, oltre a tanti giocatori di ruolo, come Andre Iguodala, Shaun Livingston, Zaza Pachulia, JaVale McGee, David West e il giovane Jordan Bell. Ma se i Warriors vincono ancora, e sono a buon diritto una dinastia NBA (senza la sospensione di Draymond Green nel 2016 i titoli consecutivi sarebbero probabilmente quattro), è grazie al loro sistema, implementato proprio da Steve Kerr. Bisogna ritornare indietro all'estate del 2014, quando l'ex giocatore di San Antonio e Chicago (e general manager dei Phoenix Suns di Mike D'Antoni e Steve Nash) divenne capo allenatore di Golden State. Una scelta forte, presa anche e soprattutto da Jerry West, icona - in tutti i sensi - del basket NBA. Obiettivo, valorizzare il talento di Stephen Curry, Klay Thompson e Draymond Green, giocatori speciali ma non attaccanti da uno contro uno. Un vantaggio per certi versi, un punto a sfavore per altri: ecco perchè Kerr ha costruito un sistema di continuità offensiva che consentisse ai due Splash Brothers di essere sempre in movimento e pronti a tirare da tre. L'attenzione degli avversari sul perimetro ha generato un numero incredibile di tagli verso il canestro, in un ottovolante mai fermo, che è salito in orbita già nel 2015, per poi battere il record di vittorie in regular season dei Chicago Bulls nell'anno successivo, salvo incepparsi proprio contro i Cleveland Cavaliers di LeBron James e Kyrie Irving nella famigerata gara-7 della Oracle Arena.
Quella sfida, oltre a rappresentare una delusione gigantesca, ha significato il passaggio ai Warriors 2.0, quelli odierni, capaci di spazzare via quel che restava dei Cavs e di un LeBron sull'orlo di una crisi di nervi. Fuori Harrison Barnes, ottimo difensore e solo all'occorrenza tiratore, dentro Kevin Durant, free agent in uscita da Oklahoma City. L'upgrade è stato clamoroso sui due lati del campo. In difesa KD ha garantito verticalità, marcature individuali e protezione del ferro, in attacco si è inserito nel sistema e ne è stato la valvola di sfogo. Quando la palla si ferma, o quando Curry e Thompson non sono in giornata, Durant è l'uomo che toglie le castagne dal fuoco ai Warriors. Un lusso, come candidamente ammesso da Steve Kerr. Ma l'eccezionalità di Golden State non sta solo nel tasso di talento pescato al Draft (gran lavoro nel corso degli anni del general manager Bob Myers) e valorizzato dall'allenatore, ma nella costruzione di una cultura di grande pallacanestro, che va oltre i singoli, difficile da riscontrare in quelli che oggi nell'NBA si chiamano superteam. Golden State è effettivamente un superteam, non per le sue star, bensì per la capacità dei giocatori di fidarsi del sistema e di metterlo al di sopra del resto, al punto che adesso è ancora aperto il dibattito su chi sia stato l'MVP di queste Finals, se Kevin Durant, premiato con il Bill Russell Trophy, o Steph Curry, snobbato per una gara-3 giocata non all'altezza dei suoi mezzi. I Warriors dei tre titoli sono la squadra di Kerr, allenatore fantastico, che ha mutuato concetti di basket di diverse ere per fonderli in un gruppo che quest'anno era ingolfato in regular season ed è stato costretto agli straordinari dagli Houston Rockets (la vera finale anticipata).
Aver tenuto insieme il cuore pulsante del team, con i veterani ancora dentro, dal fondamentale Andre Iguodala (scarto dei Denver Nuggets, ora uomo chiave per milioni di motivi) al redivivo Shaun Livingston, è stata il preludio al nuovo trionfo. Questi Warriors sembrano all'apice del loro successo, hanno ancora anni di gloria davanti a sè, ma dovranno convivere con la pressione che viene addossata ai più forti e con un certo rilassamento da pancia piena. Per chi ha vinto e dato spettacolo per quattro stagioni, le aspettative saranno sempre altissime: a Kerr, Curry e compagnia il compito di respingere l'assalto delle avversarie, che hanno preso proprio Golden State come modello da seguire, a testimonianza della straordinarietà di quanto fatto sulla Baia.