Quando lo scorso 4 luglio Kevin Durant annunciava su The Players Tribune la sua decisione di lasciare gli Oklahoma City Thunder per andare ai Golden State Warriors, tutti hanno pensato ad un epilogo scontato. Aggiungere un sette volte All Star ad una squadra da 73 vittorie in regular season, significava rendere invulnerabile una creatura che aveva dato indizi di mortalità solo ai playoff. Indizi che si sono trasformati in prove quasi inconfutabili nella finale persa contro i Cleveland Cavaliers.
Dare a coach Kerr uno dei più grandi scorer della storia del gioco, è stato il modo più facile per dimenticare l'umiliazione della rimonta, la via più semplice per spaventare le altre (poche, a dire il vero) contender e rendere il finale pressoché scritto.
LeBron James, però, non ha mai avuto paura. Ha sempre visto il confronto con grandi avversari come una sfida, titanica in questo caso, ed uno stimolo per provare ad esplorare nuovi limiti.
Il concetto di limite rappresentava per gli Antichi Greci la misura del genere umano e della caducità delle cose. Gli uomini che provavano ad oltrepassare i limiti posti dalla natura, peccavano di hybris ("tracotanza") e finivano per subire inevitabilmente la punizione divina.
A LeBron importa poco della mitologia greca. Ha dimostrato di sapere andare oltre il lato terreno dello sport per raggiungere nuove vette da scavalcare. Lo ha fatto dopo avere assaporato più volte una sensazione estremamente umana: la delusione della sconfitta.
Oggi però LeBron è un giocatore ed un personaggio pubblico diverso, un uomo che da villain è diventato hero, da traditore si è trasformato in salvatore. Un'evoluzione continua che lo porta adesso, in uno degli ultimi capitoli della sua epopea agonistica, a dover affrontare la sfida più difficile della sua carriera: battere questi Golden State Warriors.
I playoff 2017 verranno ricordati a lungo come il terreno del dominio di due squadre straordinarie. Dopo dieci partite di post-season gli Warriors e i Cavs sono ancora imbattuti e viaggiano spediti verso un finale ineluttabile, un destino scritto undici mesi fa, quando sembrava impossibile non assistere allo scontro tra titani. Eppure le statistiche non parlano a favore del Warriors vs Cavs 3.0: mai nella storia delle finali Nba, infatti, due squadre si sono affrontate per tre anni consecutivi.
Una statistica pronta a trovare la sua eccezione per merito di due compagini che hanno costruito sull'eccezionalità tutta la loro grandezza.
La scorsa settimana mi è capitato di ascoltare un'intervista a Marco Belinelli, ospite della trasmissione Tutti Convocati su Radio24. Tra una chiacchiera e l'altra sul mondo Nba, l'ex giocatore della Fortitudo si è soffermato anche sui Golden State Warriors, pronosticando una loro vittoria in finale e aggiungendo qualcosa sul loro modo di giocare: "Golden State si ritrova a giocare anche con 5 esterni in campo, non è proprio il top, se così vogliamo dire (...). Tiri un po'strani, poco movimento di palla...".
Sono ormai tre anni che gli Warriors di Steve Kerr sono la migliore squadra dell'Nba. Hanno portato a casa un anello, battuto il record dei Bulls di Jordan per numero di vittorie in regular season (73) e sono andati ad un tiro nell'ultimo quarto di gara-7 dal vincere il secondo anello consecutivo. Dovremmo, dunque, avere visto un numero di partite sufficiente per poterli giudicare e sviscerare al meglio i concetti offensivi e difensivi della squadra californiana.
A dispetto di quanto sostenuto da qualche addetto ai lavori, il sistema degli Warriors prevede tantissimo movimento di palla. Hanno chiuso la regular season al primo posto per numero di assist a partita: 30.4 (la seconda squadra, i Denver Nuggets, con 25.3 assist di media, è lontana anni luce). Golden State è prima anche per percentuale di assist che hanno portato ad un canestro (70.5%), punti creati attraverso un assist (72.1) e per numero di secondary assist (9.6), detti anche hockey assist, ovvero passaggi che aprono il campo e consentono ad un compagno di effettuare un'assistenza.
Quest'ultima categoria è particolarmente importante per comprendere quanto sia accurata negli Warriors la ricerca del tiro migliore. La squadra allenata da Steve Kerr applica principi offensivi di diverse scuole di pensiero, come il triangolo di Jackson, la motion offense degli Spurs e la seven or less di D'Antoni.
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— NBA on ESPN (@ESPNNBA) 17 maggio 2017
Un aspetto, però, profondamente innovativo del basket di Kerr e sviscerato più volte dagli analist americani, è la qualità dei blocchi portati dagli Warriors. E il riferimento non è solo ai lunghi, ma anche e soprattutto agli esterni. Una delle capacità più sottovalutate di Curry è proprio l'incisività dei suoi blocchi, un fondamentale che rende l'attacco dei californiani estremamente imprevedibile.
Come scrive Chris Herring su Fivethirtyeight, il segreto di Golden State va ricercato nei continui blocchi che vengono portati lontano dalla palla e che servono a liberare i tiratori sul perimetro o in alcuni casi ad aprire le porte del ferro a Durant o allo stesso Curry.
Non è un caso che sia la squadra che, in questi playoff, ha giocato il maggior numero di possessi offensivi in situazioni off-screen (11.2%) e taglio verso il ferro (11.7%), mentre sono al penultimo per attacchi conclusi con un tiro del portatore di palla nel pick and roll e con un isolamento.
Ciò che rende, dunque, devastante l'attacco degli Warriors è la loro imprevedibilità, oltre ovviamente alle straordinarie capacità realizzative da dietro l'arco che condiziona fortemente le scelte difensive degli avversari.
Come era prevedibile, Golden State si è dimostrata inarrestabile in questi playoff. Al netto dell'infortunio di Kawhi Leonard in gara-1, che ha di fatto impedito agli Spurs di infliggere alla squadra californiana la prima sconfitta in questi playoff, gli Warriors hanno dominato quasi tutti gli incontri con un assurdo Net Rating di 17.9. Nelle rare occasioni in cui Curry e Thompson hanno tirato male da tre, Golden State ha utilizzato l'arma definitiva: affidarsi agli isolamenti di Kevin Durant. L'ex giocatore dei Thunder si è integrato alla perfezione nel sistema di Steve Kerr: la presenza di tiratori mortali come Curry e Thompson, impedisce alle difese di raddoppiarlo negli uno contro uno e questo consente a KD di abusare dei propri avversari in transizione o in situazioni di isolamento.
Il paradosso di questi playoff riguarda, però, la presenza di un'altra squadra altrettanto dominante e capace, come gli Warriors, di chiudere le prime dieci partite della postseason senza alcuna sconfitta. Parliamo, ovviamente, dei Cleveland Cavaliers.
Alla vigilia dei playoff c'erano tanti dubbi su questi Cavs, soprattutto per il loro rendimento deficitario post All Star Game. Dubbi che sono stati spazzati in via in poco tempo.
Contro i Pacers, Cleveland ha faticato più di quanto indichi il punteggio della serie (il 4-0 contro Indiana è lo sweep con il minore differenziale di punti nella storia dell'Nba). Dopo avere battuto Indiana, però, i Cavs si sono abbattuti contro Toronto e hanno spazzato via in maniera brutale i Celtics nei primi due episodi della serie, con un dominio più unico che raro per un contesto come le Finali della Eastern Conference.
Con il successo in gara-2 la squadra di Tyronn Lue ha eguagliato il record dei Lakers 1988-89 per numero di vittorie consecutive ai playoff (13) e LeBron James ha portato a termine l'ottava gara consecutiva con almeno trenta punti, facendo registrare, sempre in gara-2 contro Boston, il più alto plus/minus della sua carriera (+46).
In questa postseason James sta giocando un basket incredibile per controllo tecnico e mentale delle partite. Coach Stevens ha scelto di restare vicino ai tiratori di Cleveland e di "lasciare" il pitturato a LeBron e Irving. Il Prescelto ha risposto massacrando Boston nei pressi del ferro, soprattutto in gara-1, quando ha eguagliato il suo massimo in carriera ai playoff per punti nel pitturato (26). Se a questo aggiungiamo il suo fantascientifico 45.8% da tre su 6 tentativi di media partita, capiamo benissimo quanto sia difficile, se non impossibile, fronteggiare l'attacco dei Cavs.
In questo momento Cleveland ha troppe soluzioni offensive, soprattutto se Kevin Love, come dimostrato nella serie contro Boston, ritrova la sua dimensione di giocatore interno e di straordinario passatore dal post alto.
Nella serie contro Boston l'ex giocatore di Minnesota è diventa il vero e proprio incubo di Horford, grazie alla sua capacità unica di tirare in maniera efficiente da tre e di punire il lungo di Boston nei pressi del ferro.
In questo momento i Cavs sono la migliore squadra dei playoff per percentuale realizzativa da tre (43.3%): avere un Love sano e forte mentalmente ha consentito a Cleveland di diventare una macchina offensiva versatile, un rebus pressochè irrisolvibile per la facilità con la quale riesce sia ad attaccare il ferro che a concludere da dietro l'arco.
A meno di clamorose sorprese, dunque, saranno Warriors e Cavs a giocarsi il titolo nel mese di giugno. Avremo modo e tempo di analizzare le possibili chiavi tattiche. A livello mentale sarà fondamentale vedere come le due squadre reagiranno alle prime difficoltà, dopo aver dominato in lungo e largo nell'ultimo mese.
Gli Warriors dovranno recuperare un Andre Igoudala alle prese con qualche problema fisico negli ultimi giorni e ritrovare il Klay Thompson degli scorsi playoff, dal momento che il prodotto di Washington sta attraversando un piccolo slump al tiro.
Per i Cavs, invece, il test principale sarà nella meta campo difensiva contro una squadra che non perdona alcun errore. La certezza è che assisteremo, con ogni probabilità, ad uno spettacolo epico ed il vincitore sarà riuscito ad issare più in alto la bandiera dei propri limiti.