"Bounce back". Espressione di gergo NBA con cui si intende indicare la capacità di una squadra (o di un giocatore) di rispondere immediatamente alle difficoltà. Ed è quanto accaduto nella notte dell'AT&T Center, durante la gara tra San Antonio Spurs e Golden State Warriors, in una sfida attesissima ed estremamente intensa, vinta dai californiani dopo un inizio choc (15-0 di parziale e poi sotto di una ventina di lunghezze).
Ancorchè orfani di Kevin Durant (il cui recupero dovrebbe avvenire per le ultime tre partite casalinghe di regular season), i Warriors hanno dimostrato una forza che non è solo nei numeri (altra stagione che potrebbe concludersi sopra le sessantacinque vittorie), ma anche nella testa, e che deriva dalla convinzione nei propri mezzi. "Trust the system", si diceva in NBA prima che Joel Embiid e i suoi Philadelphia 76ers mutassero l'assunto nell'ormai celebre "Trust The Process": il sistema ha tenuto a galla Golden State anche quando le ondate della mareggiata neroargento sembravano condurre a un naufragio certo. "San Antonio ha cominciato alla grande dal punto di vista difensivo, ma sapevamo che per loro sarebbe stato troppo dispendioso continuare così per quarantotto minuti", ha spiegato a fine partita Steve Kerr, l'uomo della tranquillità, oltre che creatore del sistema. Aggrediti da Leonard, Danny Green e da un Aldridge convincente anche nella propria metà campo, i vicecampioni NBA hanno atteso la fine della tempesta, per cominciare a macinare il loro gioco anche all'ombra dell'Alamo. Splendida la difesa Spurs sui tagli degli esterni avversari, ma non sufficiente a rendere vano il moto perpetuo di Stephen Curry e Klay Thompson, i due Splash Brothers attivissimi senza palla e pericolosi come d'abitudine dalla linea del tiro da tre. Golden State ha subito nel primo tempo lo stesso trattamento che i texani avevano riservato ai Cleveland Cavs, salvo non andare al tappeto e continuare a competere, sorretti dalle certezze difensive, con Draymond Green ancora elemento troppo sottovalutato sui due lati del campo e Andre Iguodala in versione grande veterano.
Curry ha indicato la via, continuando ad attaccare anche quando la gara sembrava segnata, Thompson non ha mai smesso di tirare, finchè gli Spurs non hanno mostrato il fiatone per uno sforzo difficile da sostenere per oltre tre quarti di gioco. Nel secondo tempo i jolly di Kerr si sono chiamati David West, ex di serata, e JaVale McGee: due lunghi considerati non all'altezza per coprire le magagne della panchina dei Dubs, ma rivelatisi invece preziosissimi per ottenere un successo che vale ormai il primo posto nel ranking della Western Conference. "Ben vengano queste sconfitte, ci serviranno di lezione", ha detto Manu Ginobili al termine della gara, mantenendo alte prospettive e convinzioni dei neroargento. San Antonio ha avuto le risposte che voleva da Pau Gasol, il catalano che al momento sembra perfettamente calato nel suo nuovo ruolo, e da LaMarcus Aldridge, quantomeno nella metà campo difensiva (con Dedmon al suo fianco), ma non da Tony Parker. Il franco-belga è ancora una pedina fondamentale nello scacchiere di Popovich: non più in grado di chiudere al ferro come in gioventù, il numero nove degli Spurs ha bisogno quantomeno di creare vantaggi dal pick and roll, allo scopo di non costringere Kawhi Leonard a un sovraccarico di responsabilità offensive che non giova alla causa. Danny Green e Patty Mills hanno fatto il loro, con il primo tornato in gran spolvero dall'arco, ma ai neroargento serviva e servirà un altro esterno trattatore di palla in grado di creare attacco. E' l'NBA di oggi, in cui in un'eventuale finale di Conference anche Popovich dovrà prendere in considerazione la possibilità di giocare con un unico lungo e Leonard da numero quattro. Troppo presto per dirlo? Senza dubbio, ma un Parker a quattro cilindri è imprescindibile per le ambizioni di titolo degli Spurs: il solo - incantevole - Manu Ginobili non può bastare come secondo violino del reparto esterni dei texani.