Parlare di Stephen Curry snocciolando cifre, statistiche e quant’altro è quanto di più crudele si possa fare alla poesia del Gioco, perfettamente incarnata dal secondo figlio prediletto di Akron (il primo, fino a prova contraria, è quello che ha eletto domicilio in pianta stabile alla Quicken Loans Arena, dopo l’intermezzo ingioiellato di Soutn Beach). Eppure per spiegare compiutamente cosa lo show che il numero 30 sta mettendo in atto in questa regular season, non si può non far riferimento ai suoi numeri. Che potrebbero risultare persino offensivi.
Partiamo dall’ultima esibizione di Charlotte, nel giorno del ritorno a casa di papà Dell. Il quale, per una volta, aveva sperato anche solo di condividere il proscenio con il figliolo. Speranze disattese nei successivi 31 minuti, lasso di tempo nel quale Steph ha messo a segno 40 punti (28 in un terzo quarto da urlo con il 100% da tre e con un parziale che recitava Curry 24 – Hornets 0 nei 7 minuti precedenti l’ultima pausa): 14/18 al tiro, 8/11 dall’arco per uno spaventoso 77.8% dal campo. Ripetiamo insieme: SETTANTASETTE PUNTO OTTO PER CENTO dal campo.
Qualcosa di inimmaginabile soprattutto se parametriamo questi dati sul medio lungo periodo: nelle prime 20 gare stagionali dei Golden State Warriors, il fenomeno ha già mandato a bersaglio 100 triple, risultando il giocatore più veloce di sempre a centrare quest’obiettivo, stracciando i precedenti primati di Ray Allen e Ryan Anderson che avevano impiegato ben 11 partite in più. Non solo: continuando di questo passo (e sarebbe fantascienza allo stato puro), Steph chiuderebbe la stagione regolare a quota 410. Se non vi bastasse nemmeno questo, vi invitiamo a considerare il fatto che siamo di fronte ad uno che è alla settima volta in stagione che mette a segno 30 punti nei primi 3 quarti, nonché alla quinta volta che chiude un singolo quarto con almeno 20 punti.
Si d’accordo. Ma forzerà pure, direte voi. Niente affatto. Ed è proprio questo il dato che dovrebbe far maggiormente riflettere. Curry è l’arma offensiva totale votata all’efficienza massima. Pochi tiri, tanti punti. Mercoledì notte gliene sono bastati 18 dal campo per quarantelleggiare contro i ‘Jordan boyz’ (è il numero di conclusioni più basso della carriera in partite in cui ha realizzato 40 o più punti). E, più in generale, al 52.4% dal campo fin qui fatto registrare (per 32 di media a serata) fa da contorno il 65% di effective field goal percentage: che è il valore più alto fatto registrare da un giocatore con almeno 20 punti di media a partita dal Wilt Chamberlain del 1966/1967. E ‘The Big Dipper’ viene scomodato anche per quanto riguarda la player efficency: il suo attuale record di 31.8 (fatto registrare nel 1963/1963) potrebbe crollare sotto i colpi del ‘Baby faced Assassin’ che, al momento, viaggia alla velocità di crociera di 34.4. Quel che peggio è che non si può invocare nemmeno l’effetto Oracle Arena. Perché Curry, come tutte le stelle che risplendono maggiormente al buio, gioca meglio in trasferta che in casa: 5 quarantelli nelle prime 10 trasferte stagionali, impattando l’Allen Iverson del 2005/2006. Con qualche spruzzata di intensità difensiva che non guasta mai: con 2.4 rubate a partita è secondo solo a Kyle Lowry in questa speciale categoria.
Con gli effetti che si riverberano anche sul resto del gruppo. Le prestazioni dell’MVP 2015 (e, di questo passo, anche 2016) sono la perfetta manifestazione del Warriors state of mind: attacco stellare (prima squadra della storia a segnare almeno 100 punti in ognuna delle 20 gare fin qui disputate), difesa solidissima (sesta in assoluto e prima per minor numero di punti concessi per possesso), presente a rimbalzo (quarti in graduatoria), letali in contropiede (21.3 punti a sera, più di 3 dei Washington Wizards secondi nella specialità), per niente egoisti pur potendo contare su una batteria di tiratori formidabile (il 69.4% dei canestri di Golden State è frutto di un assist).
Ci sarebbe molto altro. Ma per il momento conviene fermarsi qui. Perché, in fondo, Curry e i suoi fratelli sono più di tutto questo. “Sono il pennello con il quale la nostra fantasia ha dipinto il basket così come avremmo voluto che fosse” (semicit.). E come si disse un giorno per l’altro figlio prediletto di Akron: “siete, sono, siamo tutti testimoni”.