La notizia è una di quelle che non si vorrebbe mai affrontare. Specialmente appena svegli: Lamar Odom è in fin di vita.
L’ex cestista di Clippers, Lakers, Mavericks ed Heat (36 anni il prossimo 6 novembre) è stato trovato svenuto dal proprietario della casa di appuntamenti Love Ranch di Carson City, Nevada, nel pomeriggio locale di ieri (nelle prime ore della notte italiana). Come succede sempre in questi casi, le voci si rincorrono. Per ora fonti abbastanza attendibili sembrano confermare che Lamarvelous fosse all’interno della struttura da tre giorni consecutivi e che all’arrivo del personale sia stato trovato del viagra naturale alle erbe, assieme ad una bottiglia di cognac semipiena. Odom è stato ricoverato immediatamente al Desert View Hospital di Pahrump. Da qui i medici hanno tentato un trasporto in elicottero fino all’ospedale di Las Vegas, reso impossibile dalla stazza del paziente, che così è stato spostato in ambulanza fino al Sunrise Hospital.
Sempre secondo voci vicine all’atleta, Lamar sarebbe in coma farmacologico, e respirerebbe solo grazie ai macchinari.

L’intero mondo NBA si stringe idealmente attorno al suo letto d’ospedale. Oltre a Kobe Bryant (che si è recato in ospedale dopo poche ore, assieme all’ex moglie Khloé Kardashian) hanno fatto sentire la propria vicinanza molti giocatori e addetti ai lavori. Particolarmente toccanti i pensieri (affidati a Twitter) di Dwayne Wade e Udonis Haslem.


Forza mentale che servirà ad Odom per superare l’ennesimo scoglio della sua vita. Già, perche l’ex gialloviola non ha mai avuto una vita normale. Sempre o troppo in alto o troppo in basso, come in un terrificante rollercoaster.
Fin dalla sua nascita, il 6 novembre 1979 nel Queens, la vita lo ha sempre messo alla prova. Ai gravi problemi di eroina del padre si aggiunse la tragica scomparsa della madre, stroncata da un tumore al colon quando il futuro campione aveva solo 12 anni. Così il nostro trova appiglio nella nonna, Mildred, e soprattutto nella sua passione principale: il basket.
A dire il vero questo Lamar dal Queens non è affatto male, con la palla a spicchi in mano. E se ne accorgono tre diverse High School: prima la Christ The King Regional, poi la Redempion Christian Academy ed infine la St. Thomas Aquinas. Ovunque vada, il ragazzo è riconosciuto per le sue straordinarie doti dentro, ma soprattutto fuori dal campo. E’ sempre sorridente ed allegro con tutti. Si diverte. Riesce anche a fare un paio di apparizioni nelle selezioni federali, dove incrocia, tra gli altri, Ron Artest. Inutile ricordare che i due si incroceranno di nuovo, anni dopo.

Nel frattempo Odom è pronto al primo salto: nel 1997 gioca la sua prima partita di basket universitario, con la divisa di UNLV, l’ateneo di Las Vegas. Alla fine della sua prima (buona) stagione in Nevada, però, cominciano i problemi.
Il primo guaio è la citazione in giudizio per favoreggiamento della prostituzione, arrivato in quell’estate dopo un’indagine sotto copertura della polizia. Poco dopo, una seconda indagine, stavolta firmata NCAA, rischia di provocare l’espulsione di UNLV dalla federazione. In realtà la sentenza sarà di 4 anni di “osservazione”, ma il terremoto interno all’ateneo porterà al licenziamento del coach Bill Wayno, con conseguente fuga di molti dei giocatori. Lamar non ne è escluso, e sceglie di trasferirsi a Rhode Island, trascinandola alla vittoria dell’A-10 Conference, nel 1999.

L’estate successiva Lamarvelous sente di essere pronto al grande salto e si rende elegibile al draft NBA. Alla chiamata rispondono presenti i Los Angeles Clippers, portandolo in California con la quarta scelta assoluta.
L’approccio col mondo dei grandi è letteralmente devastante: 30 punti e 12 rimbalzi all’esordio, che saranno 16.6 e 7.8 di media a fine stagione. Più che sufficienti per essere eletto nel primo quintetto Rookie assoluto del 2000. L’anno successivo i punti saranno 17.8, con 74 partenze da titolare. Tuttavia, nonostante le grandi potenzialità del roster i Clippers continuano a faticare nella Western Conference, fallendo ancora l’obiettivo playoffs.

A questo punto i fantasmi di Odom si ripresentano ancora, prepotentemente. Stavolta arriva la sospensione dell’NBA per “la seconda violazione in otto mesi del codice anti-droghe della federazione”. Egli ammette di fumare marijuana, ma i sospetti versano in direzione di altri tipi di sostanze (la marijuana non rientra neanche nelle violazioni del codice NBA, in realtà). Quella stagione le presenze sono 28, che diventano 48 nel 2002-2003: tutte piuttosto deludenti.
Nell’estate del 2003 diventa restricted free agent, assieme al compagno Elton Brand. A bussare alla porta del GM dei Clippers sono i Miami Heat, con in mano due offerte. In California la decisione del front office è quella di pareggiarne solo una: Brand rimane, Odom fa le valige. Sarà Florida per lui.

Nella stagione a Miami il numero 7 torna brillante: parte praticamente sempre in quintetto con i due rookie Dwayne Wade e Caron Butler. 17.1 sono i punti, 9.7 i rimbalzi. Il quarto posto nel seed permette agli Heat di arrivare al secondo turno dei Playoffs, in cui Odom continua a brillare, nonostante la sconfitta per 4-2 contro i primi classificati, gli Indiana Pacers.
A fine stagione il GM di Miami si trova però davanti ad un’imperdibile occasione: Shaquille O’Neal. Ergo servono sacrifici per liberare spazio salariale. Allora Lamar parte ancora, stavolta con Butler e Grant, e torna a Los Angeles. Sponda Lakers.

Dopo la prima turbolenta stagione senza playoffs, il ragazzo inizia a farsi uomo inanellando splendide prestazioni in serie (infortuni permettendo) ma soprattutto guadagnando rispetto e simpatie dentro e fuori dal campo. La sua intesa con Kobe è esemplare.
Ed ecco che torna lo spettro della morte a disturbare, e non poco, la sua ascesa. Jayden Odom, terza figlia avuta dal cestista con la compagna Liza Moralez, muore improvvisamente nel giugno del 2006. A solo 6 mesi e mezzo, la piccola è stroncata nel sonno da un male sconosciuto. Lamar fa fatica a riprendersi dal colpo subito e -complici anche piccoli infortuni-, gioca solo 54 partite in stagione. I suoi Lakers si fermano contro Phoenix al primo turno dei playoffs.

Tuttavia, lentamente, Odom torna in sé. Torna ai suoi livelli. Torna a giocare come sa. A sorridere. Ancora una volta. Anche quando è costretto al ruolo di sesto uomo dall’esplosione di Andrew Bynum, riesce a fare sempre la differenza, arrivando alle Finals NBA, poi perse contro i Boston Celtics nel 2008.
Sono solo le prove generali. Nel 2009 (11.3 punti, 8.6 rimbalzi) arriva il primo titolo. I Lakers sono inarrestabili, e Odom è parte di quel meccanismo ben oliato che funziona alla perfezione. Sconfitti gli Orlando Magic nelle Finals, può fregiarsi di quell’anello che sognava da una vita. Questo è forse il miglior momento della sua carriera. Parte di una grande squadra, reduce dal matrimonio con la reginetta del gossip Khloé Kardashian, rispettato da compagni, avversari ed addetti ai lavori in genere. Addirittura protagonista di una serie televisiva prodotta da E!, insieme alla consorte ed ai suoi due figli. La favola che diventa realtà.
L’estate successiva torna nel marasma della free agency, ed i Lakers mettono sul piatto un quadriennale da 33 milioni che lo convince a restare. Scelta azzeccatissima. Odom è oramai fondamentale negli schemi dei giallo-viola, e con la rivincita sui Celtics arriva il secondo anello consecutivo. Il sogno va avanti.
Nel 2010-2011 continua sui suoi livelli, sostituendo per 33 partite l’infortunato Bynum in quintetto, ed offrendo il suo contibuto dalla panchina nel resto della stagione. E’ il primo nella storia dei Lakers a ricevere il premio di sesto uomo dell’anno NBA.
Il fato però non accenna proprio a lasciare in pace il nostro e lo lancia ancora in caduta libera: prima la morte di un caro cugino, poi la partecipazione (come passeggero) ad un incidente stradale in cui perde la vita un ciclista adolescente, minano tutte le sue certezze. Addirittura pensa ad un momentaneo ritiro dal parquet. E la situazione, se possibile, si complica.
Sulla panchina dei Lakers Mike Brown sostituisce Phil Jackson, e nel triangolo offensivo del nuovo coach semplicemente non c’è posto per Odom. E non è tutto: la vera tegola arriva in Novembre. Lamar viene a sapere che David Stern ha posto il veto su una trade praticamente chiusa tra Houson, Los Angeles e New Orleans, che avrebbe portato Chris Paul alla corte di Brown, Gasol in Texas e Lamar, insieme ad un pacchetto di giocatori dei Rockets (Martin, Scola, Dragic) agli Hornets. Nonostante l’operazione non sia andata in porto, Odom dichiara pubblicamente di sentirsi tradito dalla sua franchigia e chiede di essere scambiato. Trade che arriva ad inizio dicembre, e coinvolge una prima scelta e una somma di denaro dei Dallas Mavericks, in cambio del ragazzo cresciuto a UNLV.

In Texas ha inizio il calo del numero sette: nel successivo marzo è prima relegato in D-League per qualche giorno, poi reintegrato in prima squadra ma per la prima volta tenuto in panchina un intero match, pur essendo in perfetta salute. La situazione non decolla ma anzi un mese dopo precipita in un acceso diverbio con il proprietario della franchigia campione in carica, Mark Cuban, durante l’intervallo del match contro i Memphis Grizzlies. Odom è messo fuori rosa fino a fine stagione, quando il contratto viene rescisso.
La stagione successiva torna per la terza volta a Los Angeles, stavolta proprio con quei Clippers che lo scelsero al draft. Le cose non funzionano, il buon Lamar sembra un giocatore in profonda crisi a 33 anni. Gioca tutte le 82 partite, ma solo due da titolare. A fine stagione il suo contratto non viene rinnovato.

Poco dopo, nella sua vita arriva l’ennesimo scossone. Proprio mentre girano voci sul suo litigio con Khloé Kardashian, rea secondo la stampa di volerlo spedire in riabilitazione per il suo presunto abuso di crack, è reso noto l’arresto per guida in stato di ebrezza. Il tribunale opta per tre mesi di libertà vigilata e un percorso di disintossicazione dall’alcool. Nel dicembre del 2013 Khloé avvia le pratiche di divorzio.
Odom cerca nuove avventure prima in Spagna (fermato dopo sole 2 partite da un infortunio alla schiena) e poi tornando in NBA con i New York Knicks, per cui non scende in campo neanche un minuto.

Le ultime ci arrivano ora, quasi tre anni dopo. Un’altra batosta. Un altro ostacolo da superare, forse il più duro. L’intero mondo NBA aspetta col fiato sospeso l’esito dell’ennesima battaglia della vita di Lamar Odom. Sperando che il suo sorriso possa, un giorno, tornare ad illuminare chiunque gli sia vicino.