LeBron stringe la mano a Steph, saluta Steve Kerr e rende omaggio ai vincitori. La sua immagine, in panchina, con una salvietta a coprire il volto, nell'ultimo dialogo interiore sul parquet della Quicken Loans Arena, stride con l'onnipotenza  dispensata in campo. 4-2 per Steph Curry, titolo ai Golden State Warriors, si infrange il sogno di LeBron e dei Cavs. L'MVP è Iguodala, questa la decisione. La storia consegna ai posteri e forse all'immortalità la serie di James, il vero MVP. 

No LeBron, no party, questo l'assunto. Troppa disparità tra Cavs e Warriors. Senza Love, il terzo violino, in gara-1, Cleveland saluta Irving, il primo attore alle spalle del Prescelto. La serie trova linfa nel carattere di Blatt e dei Cavs, in parte nelle paure dei Warriors. James si trova al cospetto di una sfida nuova, intrigante. Vincere, solo contro tutti, nella NBA dei giorni nostri un'impresa impossibile. Del castello costruito in estate solo macerie, il quintetto che si pone al cospetto di Curry e compagni, è un'accozzaglia di cuore e determinazione, il talento è tutto nel corpo del 23. Shumpert e JR, innesti in corso d'opera, bucano l'appuntamento con la storia, Dellavedova è la scheggia che condiziona la prima parte delle Finals. Butta l'anima in campo, si tuffa, si sporca le mani, rapisce il cuore di chi guarda. Gara 2, gara 3, Cleveland è avanti, LeBron è immane, spande la sua influenza su tutti i 28 metri. Detta il ritmo, innesca i compagni, va a canestro, niente può limitarne l'incedere. 

La pochezza dei Cavs si misura dai minuti, rari, in cui James si prende una pausa, in panchina. Palla ferma, movimenti incerti, tiracci, palle perse, totale assenza di logica. Con LeBron è un'altra musica, perché giocatori normali sentono di avere una possibilità. E James li porta a un passo dalla leggenda. Gara 4 è dei Warriors, con James che riporta Cleveland vicino nel 3° quarto, ma poi cede alla stanchezza, gara 5 si decide sul rettilineo ed è l'MVP di stagione, Steph Curry, a sparare al cuore dei Cavs. Gara 6 è l'ultimo atto, quello della resa di LeBron. 

Un James più consapevole, forgiato dalle battaglie e dalle sconfitte. Dalla finale persa proprio con Cleveland, con la prima casacca NBA, una crescita in termini di personalità pari a quella sul campo. Quello era un James immaturo, fortissimo, ma che portava con sè evidenti limiti. La fuga a Miami, in nome dell'anello, il matrimonio con Wade e Bosh, 4 finali e 2 titoli, fino al ritorno, in pompa magna, a Cleveland. Una squadra per vincere subito, la cavalcata nei play-off e la finale del destino. Solo, contro tutti. 

LeBron desta impressione in ogni movimento. Il corpo è da dio greco, la tecnica superiore, il giocatore totale, il play perfetto, con movimenti da centro. Il Re cade, in piedi, stravolto dalla panchina lunga di Golden State, dall'infinita rotazione di Kerr - bravo a trovare lungo la strada gente come Iguodala e Lee - dalla pochezza dei Cavs, in 6 contro il mondo, con un uomo nettamente al comando. 

Anche ai microfoni, è un James diverso. Ogni parola è misurata, il tono pacato, James sa di essere James, non esita a farlo presente, non si nasconde, il limite è sempre un passo oltre, e il limite è l'obiettivo di LeBron, il perfezionista. 

Le Finals si chiudono con Curry in trionfo, ma è James l'uomo delle finali, è James ad aver scritto una pagina di storia. Il migliore al Mondo, parola di LeBron, nessuno osa obiettare.