Seppur con leggero ritardo sulla tabella di marcia, Vavel torna sul web con la rubrica che si impegna a raccontarvi i fatti più salienti ed importanti della settimana cestistica nordamericana. Gerarchie di classifica ed esiti incontrovertibili non sono ancora stati prodotti, (perché il calendario scorre ma anche l’ Nba ha i suoi tempi) ma lo spettacolo e gli spunti per analisi e racconti non mancano. E allora ben tornati, mettetevi comodi, sarà un piacere vivere la season 2014-2015 in vostra compagnia.

CHARLOTTE HORNETS

Da Bobcats a Hornets, da comparsa ai playoff ad una più che interessante outsider. Sua altezza Michael Jordan ha prefigurato uno scenario di tale portata per il suo team questa estate. Il numero 23 più famoso del mondo – nel corso dell’offseason - ha lavorato insieme al suo staff con intelligenza e logica, convincendo Lance Stephenson a lasciare Indiana, per poi reclutare anche Marvin Williams proveniente dai Jazz e Brian Roberts reduce da un’annata discreta ai Pelicans. Giocatori che hanno ceduto alle lusinghe della franchigia, armata da un programma di rilancio Hornets valevole e ambizioso. Sono passate 13 partite dall’inizio del campionato ed è ben chiaro che per vedere dei pungiglioni ben affilati servirà ancora qualche tempo. Necessario al coach Steve Clifford per cercare di individuare le mosse giuste per aumentare la rendita del suo quintetto, che se in difesa non è superefficace, in attacco fa ancora peggio con un modestissimo ventitreesimo posto nella classifica generale. Il peso della fase realizzativa si è concentrato fin ad oggi quasi esclusivamente nelle mani di Al Jefferson. Il capitano della squadra: lavora sporco, conquista rimbalzi sotto il proprio canestro per poi sfiorare spesso la doppia cifra alla voce punti. Non una semplice coincidenza, perché il ragazzo di Ponticello ha sempre avuto un buon rapporto con la retina. Ma è chiaro che da solo non basta. Bisognerà continuare ad affidarsi alle qualità di Kemba Walker, in attesa del pieno inserimento nella nuova dimensione di Williams e Stephenson. In particolare è dall’ex Pacers che ci si aspetta il fatidico salto di qualità. L’operato di Born Ready è già stato positivo. Garantisce buona copertura, senza trascurare le capacità di passatore (al momento assistman del gruppo), ma è pur vero che nella corte di Michael Jordan, non mancheranno le motivazioni per cercare di crescere con e per la squadra. Il 4-9 raccolto in questa primissima parte di stagione, costringe Charlotte a vedere con il cannocchiale la zona playoff, ma non crea apprensione. La prima porzione dell’annata scorsa fu quasi simile, salvo poi crescere vertiginosamente sul piano dei risultati tra febbraio e aprile 2014. Clima quindi tutto sommato sereno, almeno fino alla notizia della sospensione per 24 turni complessivi di Jeffery Taylor da parte della Federazione. Il centro svedese, paga così anche sul piano sportivo la condanna per violenze domestiche, pena comminatagli in seguito ad un arresto dello scorso settembre in un hotel di East Landing, cittadina del Michigan. Escluso anche dal giro della sua nazionale svedese, Taylor ora è chiamato a ritrovare la miglior forma fisica, e non solo, attraverso programmi di recupero mirati.

CLEVELAND CAVALIERS

Cavs: Keep calm and have patience. Ne servirà molta ai tifosi e soprattutto al tecnico David Blatt. La squadra più chiacchierata degli ultimi tempi, protagonista

assoluta dal punto di vista mediatico dell’ultima offseason non sta attraversando un periodo idilliaco: c’era da aspettarselo. La situazione era chiara a tutti. Solo i più distratti e superficiali potevano pensare che il nuovo corso dei Cavaliers sarebbe stato da subito quel mix di potenza, tecnica, esuberanza, talento ed eleganza che si rintraccia leggendone il quintetto titolare. Dan Gilbert, il numero uno della franchigia dell’ Ohio ha scelto di allestire una squadra dall’artiglieria pesante, affidandola anche ad un nuovo allenatore. Indubbiamente saggio e preparato che però in Nba non ha mai allenato. Blatt è cresciuto e maturato in Europa. Un contesto nel quale ha lasciato un’ impronta indelebile. Con lui Treviso ha colto le ultime soddisfazioni prima del crepuscolo, il Maccabi ha vinto un' Eurolega e di Blatt le nazionali di Spagna, Lituania e Russia possono raccontare solo belle cose. Il suo curriculum come si suol dire “parla da solo” ma con un linguaggio diametralmente diverso per filosofia, preparazione e mentalità da quello Nba. Le fisiologiche difficoltà di ambientamento che sta incontrando il coach nativo di Louisville si intrecciano con quelle della squadra. Sulla carta le famose possibilità per dominare in lungo ed in largo la modesta East Coast abbondano, ma nelle realtà occorrono definite linee di comando, equilibrio, amalgama in campo e soprattutto lo scorrere del tempo per consentire al nuovo motore dell’ Ohio di sprigionare tutta la potenza dei suoi cilindri con la massima efficienza. Lungi da noi, far apparire quello dei Cavs come un’ ambiente disorganizzato o senza regole, ma la storia ci ha insegnato che per saper gestire al meglio questi contesti è fondamentale l’armonia e l’imposizione di una precisa idea dei ruoli in campo. " All’inizio di questa avventura sapevamo bene, che non sarebbe stato tutto in discesa. – ha confessato Love nel postgara contro San Antonio – E’ chiaro che dobbiamo ancora conoscerci. Abbiamo giocato appena dieci partite. Tutti noi ci stiamo impegnando per cercare di cambiare rotta. " L’ex Minnesota, per la prima volta in odor di titolo, riconosce quindi di non esserci ancora pienamente calato nei nuovi panni, per la gioia dei detrattori del sistema Blatt. Il fatto di possedere una media di tiro prossima solo al 39 %, attuale secondo peggior FG% in carriera, per alcuni è la prova inconfutabile di una cattiva convivenza con “Il Prescelto”, che problemi di questo genere non sembra avvertirli né sul campo (47.4) e neanche a parole. " Problemi con Kevin? Lavoriamo tutti per la stessa cosa, se vuole la palla saremo pronti a cedergliela dove vuole ben volentieri. " Nel calderone delle polemiche cadono a pennello le parole di Chris Bosh della pre-season. Interrogato sui nuovi Cavs, l’ex Toronto aveva sentenziato: " Penso che Love dovrà sacrificarsi molto. Imparare a giocare con una personalità cestistica come quella di James non è per niente facile. “ A dir poco profetico.

DALLAS MAVERICKS

C’è chi la chiama nobile outsider, chi squadra tornata in auge, chi semplicemente la favorita al titolo. Liberi di definirla come volete, se parlate dei Dallas Mavericks e del loro ottimo impatto sulla nuova stagione. Il purosangue texano, non si nasconde. Non vuole ritagliarsi un posto ai playoff, ma più semplicemente vuole raggiungere il gradino più alto. Lo testimonia la logica dell’ultima campagna di mercato che ha visto il ritorno di Tyson Chandler, giunto con Raymond Felton da New York, il rinnovo a prezzo di favore della colonna Dirk Nowitzki e la preziosa acquisizione di Chandler Parsons dai cugini Rockets. Forse non una corazzata teutonica, ma di certo, un gruppo cresciuto rispetto agli anni precedenti dal punto di vista tecnico e qualitativo. Il dato di miglior attacco della Lega non è certo frutto del caso. Monta Ellis e Dirk Nowtizki, divenuto contro Sacramento il miglior realizzatore non americano della storia dell’ Nba, (oltre i 27.000 punti) assicurano la necessaria produzione offensiva. Tyson Chandler rigenerato dall’ambiente in cui è tornato, domina a rimbalzo e sfiora il 70 % (69.6) di tiri dal campo, senza dimenticare Chandler Parsons. L’ex Houston dopo un esordio negativo contro gli Spurs ha saputo trovare la propria dimensione. Non è l’uomo chiave per il tiro oltre la campana, (34.7 %) vista la nutrita presenza in squadra di cecchini dalla distanza, (Nowitzki in primis: 49.0 %) ma coach Carlisle ha piena fiducia nel ragazzo di Cassellberry, prova ne è l’ampio minutaggio concessogli sul parquet fin dall’inizio della stagione. I Mavs 2014/2015 sembrano davvero possedere tutte le carte per partecipare a pieno titolo alla corsa per l’anello. La scorsa stagione costrinsero gli Spurs a sudare le fatidiche sette camicie per superare il primo turno della postseason. Manca ancora molto, ma con un pizzico di fantasia è facile immaginare un revival del confronto già a partire da quest’anno. Sicuramente ad un round più avanzato del precedente.

LOS ANGELES LAKERS

Mentre i raggi del primo sole Nba investono la vallata abitata dai 30 diversi clan, nella costa Ovest, nella città degli Angeli di marca gialloviola è buio pesto. E

purtroppo non dipende da un’ eccezionale eclisse solare. L’annata è appena iniziata ed i tifosi dei sedici volte campioni Nba guardano già con rassegnazione l’avvenire della loro squadra. Lo sapevamo sin dalla scorsa stagione, avevamo analizzato il quadro generale, delineando un imminente futuro incerto e tutto in salita per la banda di Bryant e co. e purtroppo non ci eravamo sbagliati. “Purtroppo” perché fede cestistica a parte, (siete giustificati solo se tifate Clippers) fa davvero male vedere la seconda franchigia più vincente della Lega imprigionata in questa fitta e spessa ragnatela composta da esigenze di salary cap, scelte dirigenziali discutibili condite da errori di valutazione, un mercato indecifrabile ed un roster che di conseguenza lascia qualitativamente perplessi. Il 2013-2014 si è concluso in modo a dir poco negativo con un’infermeria ben assortita ed un bottino stagionale da 27-55 che mai si era registrato nella storia dei Lakers dal loro trasferimento in California avvenuto nel 1960. L’attuale season, forse non ricalcherà quei numeri così nefasti, ma in qualsiasi caso non potrà certamente essere bollata come quella del riscatto. Per una vera e sensata rinascita bisognerà attendere ancora qualche anno, ed è questo che preoccupa di più i tifosi, perché nel frattempo progetti a breve termine non ce ne sono. Bisognerà attendere il ritiro di Bryant? Chissà, certo è che l’ultimo contratto faraonico proposto e siglato dal Black Mamba lo scorso anno – un biennale fino al 2016 da quasi 50 milioni di dollari – è apparso da subito come un ostacolo di macrodimensioni per le mire espansionistiche nelle contrattazioni del GM Kupchack. Un autentico freno a mano che ha per forza di cose limitato il raggio d’azione nella ricerca di nuovi giocatori. Oltre alle accuse per un animo più sensibile al verde dei dollari che alle vicende societarie, la stampa non ha lesinato critiche nei confronti del Kobe Bryant uomo di spogliatoio. Henry Abbott di ESPN, a ridosso dell’inizio di stagione, ha pubblicato infatti un caldo editoriale in cui veniva messa in discussione la figura del numero 24. Da trascinatore e giocatore in più negli anni d’oro, il cestista ora sarebbe diventato un leader non più di primo pelo che mal sopporterebbe le ingerenze di eventuali nuovi talentuosi cestisti nello spogliatoio Lakers. Parole forti che non hanno minimamente scomposto la stella di Filadelphia che ad oggi (che piaccia o no) rappresenta l’unica salvezza del roster di Byron Scott. Il carisma e lo spirito del vincente, tornato tra l’altro dopo un lungo infortunio, mal combaciano però con l’attuale clima che avvolge la squadra. Con la peggior difesa del campionato e in lotta ad Ovest per un posto meno umiliante possibile, Bryant predica nella pochezza generale. Nonostante le 36 primavere il cestista non sembra avvertire i malanni fisici che talvolta di questi tempi bussano alla porta dei suoi coetanei. Magari anche il fato ha capito di averlo consultato morbosamente nell’ultimo anno e mezzo, decidendo così per una tregua. Non c’è gara in cui il Black Mamba si tira indietro, preferisce lottare, sudare e faticare come gli hanno insegnato. Con la sua media di 26.7 punti, dimostra che il talento non può sbiadire con l’età, anzi semmai si rigenera. Sperava un po’ come tutti i Lakers che in questa season, a metà tra la transizione e l’immobilismo, avesse potuto almeno fare affidamento sull’esperienza di Steve Nash e sull’ incoscienza e spregiudicatezza del rookie Julius Randle. Ma i cronici problemi alla schiena del primo ed una sciagurata frattura della tibia destra al secondo hanno pregiudicato il campionato di entrambi. L’usato di casa (parzialmente) garantito è rappresentato da Nick Young, che fresco di rinnovo quadriennale, è tornato a disposizione di Scott solo in questa ultima settimana dopo l’infortunio alla mano rimediato nel training camp. Coraggio Lakers, rimboccatevi le maniche, la strada è in salita ma mollare la presa non è nelle vostre corde. Lo suggerisce la storia, lo impone la tradizione, lo chiedono i tifosi.

OKLAHOMA CITY THUNDER

Prendete una squadra della West Coast dall’ ottimo potenziale. Privatela dei suoi due migliori top player, sottraetegli pure alcuni elementi del frontcourt e spedite il tutto in infermeria. Amalgamate con energia gli elementi rimasti ed avrete dei Thunder da ultimo posto in classifica. Strano ma vero, o forse neanche troppo. Gli uomini di Oklahoma, oramai veri e propri abituè della fase playoff, sono l’ultima ruota del carro della Western Conference. Merito, anzi colpa, delle undici sconfitte rimediate nelle prime quattordici gare stagionali. Un inizio di stagione da brividi, condizionato però dalle pesanti e numerose assenze dettate da infortunii. A dare il via al festival degli indisponibili è stato l’MVP della scorsa regular season, Kevin Durant costretto – a metà ottobre - all’operazione a causa di una frattura da stress al piede destro. In rapida sequenza lo hanno seguito Grant Jerrett, (ko per un problema al ginocchio sinistro) Mitch McGary, (alle prese con la rottura del piede sinistro) Russell Westbrook, ( frattura della mano destra) ed infine Perry Jones (contusione al ginocchio destro). Un quintetto intero che, Westbrook e Jones a parte, non ha addirittura mai calcato il parquet dell’odierna regular season. Inevitabile perciò che nella prima parte della nuova Thunder Road, l’auto guidata dal tecnico Scott Brooks si sia resa protagonista di inconsuete e rovinose uscite di strada. Oklahoma risente delle crisi soprattutto in attacco, con quel 41.9 % dal campo che è un vero e proprio grido d’aiuto. Serge Ibaka e Perry Jones con una media che si avvicina ai 16.0 punti a testa non sono sufficienti a fronteggiare l’assenza di KD. Discorso simile per Reggie Jackson in cabina di regia. Anche se il lungo minutaggio della quale beneficia gli sta consentendo di crescere dal punto di vista dell’esperienza e della personalità, il numero 15 dei Thunder non ha, l’esplosività della tartaruga Ninja, ferma ai box dalla notte di Hallowen. Mentre dalla satura infermeria comincia a muoversi qualcosa, le parole che Durant indirizza ai tifosi, al limite della depressione, hanno valore profetico. Il gigante di Washington spera di poter rientrare per il prossimo mese, i supporters ci credono ed incrociano le dita. Non chiedono altro dono da trovare sotto l’albero.

SAN ANTONIO SPURS

Li avevamo lasciati al termine dello scorso anno a godersi con pacata euforia il quinto titolo della loro storia, li ritroviamo organizzati, travolgenti, precisi e letali.

I San Antonio Spurs non regalano sorprese e puntano sull’affidabilità. L’anello non ha stravolto l’ambiente dei neroargento, partiti ad inizio stagione con un motore ingolfato, che ha presto ritrovato i suoi abituali giri con il passare delle gare. Dopo l’esordio con vittoria all’ultimo sospiro con i cugini Mavs, gli speroni si sono fermati contro Phoenix alla seconda uscita. Il sapore della sconfitta è tornato sui palati dei campioni in carica con le due gare di fila perse con Rockets e Pelicans per poi abbandonarli a scapito di tre successi consecutivi. Hanno voluto dimostrare che anche loro non sono automi perfetti, rimettendosi presto al lavoro. Non la partenza con il razzo che ci aspettava, ma comunque salutare; dalla valenza quasi terapeutica, in grado di riportare gradualmente gli Spurs sui ritmi alla quale ci ha abituato. Nessuno shock a causa della partenza balbettante per Pop, che ben conosce le potenzialità dei suoi ragazzi e sa come riuscire a tirare fuori in qualsiasi caso da ognuno di essi il proprio meglio. Dopo 12 gare i numeri sorridono alla “franchigia da battere”. Il muro difensivo alzato dai penta campioni è il migliore della Lega( media di 91.2 punti concessi a partita). Diversa invece la faccenda in attacco: perché se Tim Duncan fa ancora rima con brillantezza e Kawhi Leonard sta tornando quello delle scorse Finals, a mancare fin qui sono stati i punti della panchina orfana da lungo tempo di Patty Mills, (in recupero dall’operazione alla spalla destra) Tiago Splitter, (fermo per un problema al polpaccio destro) e Marco Belinelli, tornato a disposizione solo a partire dalla sfida della scorsa notte con Minnesota . La strada per tentare di bissare il titolo è certamente ancora lunga ma i mezzi per arrivare lontano tanto per cambiare ci sono. Così come c’è il nome di Tim Duncan nella lista dei venti marcatori della storia Nba ad aver sfondato il muro dei 25.000 punti in carriera. Il traguardo del cestista caraibico è giunto nel confronto esterno vinto contro i Los Angeles Lakers. Sono bastati appena 13 punti al numero 21 degli Speroni per raggiungere i suoi colleghi ancora in attività: Paul Pierce, Kevin Garnett, Dirk Nowtizki e Kobe Bryant. L’unico insieme a Kareem Abdul-Jabbar ad aver totalizzato almeno 25.000 punti, 2.500 rimbalzi e 14.000 rimbalzi. " E’ un onore poter condividere qualcosa con una figura così importante della storia del basket come Kareem. – ha dichiarato Timmy nel postgara - I miei 25.000 punti? Sono contento, dopo tanti anni trascorsi in Nba fa piacere raccogliere certi numeri. Credo che avrò modo di assaporare al meglio questo record quando avrò smesso, quando guardandomi indietro capirò cosa è stata la mia carriera." Nel futuro di Duncan c’è qualcos’altro. Avversari avvisati…

TORONTO RAPTORS

Più equilibrata di Cleveland, più continua sul piano dei risultati di Chicago, meglio attrezzata di Miami. Sono i Toronto Raptors di Dwane Casey. La franchigia canadese è la vera sorpresa della Eastern Conference insieme a Milwaukee di questa primissima parte della stagione. Una nomination frutto di un lavoro meticoloso, improntato allo sviluppo ed azionato dai vertici federali con il sogno di portare Toronto verso un avvenire più insigne. Un piano di lavoro patrocinato dal GM Masai Ujiri che, all’ ombra della CN Tower, ha compiuto mosse intelligenti, abilmente finalizzate alla crescita omogenea dell’organizzazione. Da queste parti non sono arrivati nomi di prima fascia, ma il prolungamento di contratto con Kyle Lowry ha una valenza non indifferente. Grazie ad un corposo quadriennale da 48 milioni di dollari, i Raptors si sono assicurati per ancora lungo tempo le prestazioni sportive dell’ex playmaker dei Rockets. Mai, stando alle sue parole, veramente intenzionato a fare le valigie in direzione Heat o Lakers, sue fiancheggiatrici nell’offseason, perché il progetto canadese lo ha davvero folgorato. “ Qui conosco l'ambiente dei Raptors, conosco i miei compagni ed il tecnico Casey, e sono a conoscenza di quello che mi possono dare. – ha dichiarato nel corso di una recente intervista - Per questo ho pensato che fosse la situazione ideale. E poi qui a Toronto giochiamo per un paese intero, c'è la possibilità di fare qualcosa di davvero speciale, e io voglio farne parte". Una vera e propria dichiarazione d’amore da parte di chi sa che le aspettative riposte nei suoi riguardi sono altissime. Il ruolo che occupa sul parquet, richiede spiccata visione del gioco e grandi responsabilità, ma non per forza l’etichetta di leader. Lowry ha accumulato esperienza ma non si sente una prima donna. "Non voglio credito solo per me " ammette a gran voce. Perché l’altra stella polare dello spogliatoio è il campione del mondo DeRozan. " I Raptors sono la nostra squadra. Il nostro successo ha a che fare anche con lui, facciamo affidamento l'uno sull'altro, ci fidiamo vicendevolmente e parliamo di continuo. Per me è come un fratello. Con lui mi trovo benissimo." Un’ intesa nata per omogeneità di intenti sul campo e poi sbocciata successivamente fuori, tra viaggi di lavoro e trasferte aeree. A Toronto si respira aria di entusiasmo, si ha voglia di crescere in fretta e di confrontarsi con altre realtà. Perché dopo essere tornati a respirare l’adrenalina dei playoff nel 2014 e aver compiuto uno sprint iniziale di questa gettata, è normale che l’appetito venga mangiando…