Sono circa le 5 di mattina italiane del 16 giugno 2014. In una città del Texas un caraibico, un americano, un franco-belga, un argentino, un italiano, due australiani e tanti altri hanno appena scritto il loro nome nella storia, laureandosi campioni NBA, sotto la guida di uno statunitense di origini serbo-croate. Ora rileggete queste esatte parole e pensate a quanto sembri surreale: una squadra a dir poco multietnica che conquista il massimo campionato di pallacanestro degli Stati Uniti e del mondo intero. Beh, sappiate che invece è successo veramente. Perchè quella cittadina del Texas si chiama San Antonio, e quei ragazzi sono gli Spurs, guidati da coach Gregg Popovich.

GLI INIZI DELLA DINASTIA - Il titolo dello scorso giugno è solamente l'ultimo conquistato da San Antonio, che era già stata sul tetto d'America per quattro volte. Tutte queste vittorie hanno una caratteristica comune: sono state conquistate con in campo il caraibico di cui sopra, tale Tim Duncan, e in panchina proprio Popovich. Il giorno in cui tutto ebbe inizio è il 25 giugno 1997, quando si tenne il draft. San Antonio veniva da una stagione a dir poco difficile, chiusa con un 20-62 a dir poco clamoroso, soprattutto visto il 59-23 della precedente annata, ma gli infortuni di David Robinson e Sean Elliott hanno complicato parecchio la prima stagione di Pop da head coach. La nota positiva la regalò la lottery: Gli Spurs conquistarono la prima scelta assoluta con cui scelsero l'ex nuotatore caraibico. Con the Admiral e Duncan sotto canestro, Popovich si trovò per le mani una coppia di lunghi eccezionale su cui fondò il suo sistema difensivo, e nel 1999 arrivò il primo titolo, vinto in finale contro i più quotati Knicks: il numero 21 subito lasciò il segno, con medie di 27 punti e 14 rimbalzi, diventando il primo sophomore a vincere il titolo di MVP delle Finals. L'età però avanzava per Robinson, e intorno a Duncan inizia quindi a formarsi un nuovo nucleo, con due tra le più leggendarie steals di sempre, rispettivamente nei draft del 1999 e del 2001: Emanuel Ginobili e Tony Parker. Il primo, argentino di Reggio Calabria, rimane in Europa fino al 2002, giusto il tempo di vincere un'Eurolega, un campionato e due coppe Italia con la maglia della Virtus Bologna; il secondo, playmaker del Racing Parigi, si trova catapultato in un ambiente che non gli appartiene troppo, almeno inizialmente, visto che già nell'estate 2003 Popovich aveva provato a prendere Jason Kidd nella sua posizione. Nel frattempo, nel giugno di quell'anno era arrivato il secondo titolo, battendo i Nets, e Duncan aveva conquistato due titoli di MVP. Ovviamente, per non farsi mancar nulla, fu nominato anche miglior giocatore delle NBA Finals del 2003.

I BIG THREE PRENDONO FORMA - Dopo un primo anno difficile comunque Parker trovò subito i ritmi, entrando a tuttotondo nei meccanismi di San Antonio. Lo stesso fece Ginobili: da rookie non brillò particolarmente, ma dal secondo anno in poi fu assolutamente devastante: nel 2005 tenne una media punti superiore ai 20 a sera nei Playoffs e diede un contributo a dir poco decisivo nelle Finals, quando gli Spurs ebbero bisogno di 7 gare per piegare i Detroit Pistons campioni in carica in una delle serie più belle di sempre. Nonostante un super Manu, Duncan fu ancora più super e si conquistò il terzo titolo di MVP delle finali su 3 tentativi. Questo trend si interruppe nel 2007, quando San Antonio conquistò il quarto titolo della propria storia, stavolta battendo i Cleveland Cavaliers: quell'anno il miglior giocatore delle Finals fu Tony Parker, letteralmente immarcabile durante tutta la serie contro la squadra del giovane LeBron James.

"MA QUANDO INVECCHIANO?" - Dopo l'uscita di scena alle Finali di Conference del 2008 contro i Lakers, un po' di interrogativi iniziarono a veleggiare intorno agli Spurs: l'età avanzava e la pancia sembrava molto piena, inoltre il sistema difensivo sembrava essere ormai letto da chiunque, e forse anche mal interpretato. Insomma, la situazione non era delle migliori. Dal 2009 al 2011 arrivano tre sberle violentissime ai PlayOff: prima il 4-1 da Dallas al primo turno, poi il 4-0 da Phoenix al secondo, infine ancora al primo turno il clamoroso upset (1 contro 8) per mano dei Grizzlies. Nel periodo che intercorre però tra il giugno 2011 e il febbraio 2012, quando si giocò ben poco causa lockout, R.C. Buford mise a segno due colpi non indifferenti, cedendo George Hill per prendere Kawhi Leonard e mettendo sotto contratto Boris Diaw. Con anche Splitter e Green a roster, si era formato un nuovo supporting cast intorno ai big three, che sembravano non sentire per nulla il peso dell'età, anzi, miglioravano stagione dopo stagione, merito anche della nuova impostazione di gioco data da coach Popovich: le tre parole chiave sono move the ball. La stagione 2011/12 inizia sotto le migliori premesse, ma in finale di Conference i Thunder di Durant e Westbrook sbarrano la strada a San Antonio, alimentando nuovamente le voci sulla fine della dinastia imminente, spazzate però dai rinnovi di Duncan e Ginobili nelle estati precedenti, fino al 2015.

VIAGGIO ALL'INFERNO E RITORNO IN PARADISO - Niente, questi proprio di andare in pensione non ne han voglia. E chi da loro torto? La squadra gira a meraviglia, tutti partecipano al gioco, il roster non è corto e si può contare su un quarto big come Kawhi Leonard. La stagione 2012/13 inizia sotto le migliori premesse, ma un crollo a fine regular season fa perdere il primo posto agli Spurs, superati dai Thunder. La corsa non si ferma lo stesso: nei Playoff le avversarie si chiamano Los Angeles Lakers (4-0), Golden State Warriors (4-2 un po' a fatica) e Memphis Grizzlies (4-0). Insomma, tutto sembra apparecchiato, bisogna solamente battere i Miami Heat. E sembra anche fatta, fino a 5 secondi dal termine di gara-6, quando, con San Antonio in vantaggio 3-2 nella serie e +3 nella partita, Walter Ray Allen decide di rovinare la festa lanciando una clamorosa bomba che manda la gara ai supplementari e dona il punto del decisivo 3-3 a Miami, che poi vincerà gara-7 e la serie nella decisiva gara-7 in casa. Delusione clamorosa per Duncan e compagni, ormai tutti li danno per morti, sbagliando. Never understimate the heart of a champion, diceva Tomjanovich. San Antonio aggiusta leggermente il roster inserendo a pieno nelle rotazioni Patty Mills e firmando Marco Belinelli per dare più profondità al reparto guardie. E in regular season si vola per davvero: 62-20, miglior record di tutta la lega, con tante sconfitte però contro le avversarie dirette dei Playoffs. La seed numero 8 a Ovest è Dallas, e lo scontro old school al primo turno fa pensare all'upset: tra un buzzer beater di Vince Carter e le magie di Ginobili, Duncan e Nowitzki la serie sembra stata presa da 8-9 anni fa e trapiantata nel presente. Si va alla 7, ed è lì che San Antonio asfalta i Mavs cominciando davvero la corsa. Battere i Blazers al secondo turno diventa una formalità: 4-1 in scioltezza, dominando tutte le gare tranne la quarta, dove Portland ha tirato fuori l'orgoglio. Nella finale di Conference arriva la prima resa dei conti, contro i Thunder: l'epilogo stavolta è diverso però, sono gli Spurs a passare per 4-2, grazie a un monumentale Tim Duncan nell'overtime di una gara-6 che sfiora la drammaticità. La finale contro Miami è un clinic offensivo d'altri tempi: 4-1 il finale, con percentuali reali dal campo maggiori del 60%, ovviamente record assoluto. Kawhi Leonard vince l'MVP delle Finals, un italiano vince il titolo. "La più bella vittoria", secondo Duncan e Popovich. E non è stato l'ultimo ballo, C'è ancora una corsa.

MA PRIMA DELLA DINASTIA? - Anche se la vera storia è quella recente, bisogna ricordare che San Antonio ha avuto un passato e delle origini. La franchigia nasce con il nome di Chaparalls, con sede a Dallas, nel 1967, prima di diventare Texans e poi nel 1973 trasferirsi nell'attuale sede e diventare ufficialmente Spurs. L'ingresso nella NBA avviene nel 1976, dopo i 9 anni nella ABA, in cui non erano mai riusciti a brillare particolarmente, anche se la prima stagione, trascinati da The iceman George Gervin arriva un buon record di 44-38. All'inizio degli anni '80, con gli innesti di giocatori come Gilmore e Johnny Moore, le cose iniziarono a cambiare: già nel 1979 i texani avevano raggiunto la finale di Conference, e lo stesso successe nell'82 e nell'83, ma lo strapotere dei Lakers di Kareem e Magic fu entrambe le volte fatale. Con la cessione di Gervin nell'85 si aprì in periodo difficile, terminato nel 1989, con l'arrivo di David Robinson, scelto al draft 1987, ma arrivato in ritardo nella lega a causa dei suoi impegni militari. The Admiral cambiò le sorti della franchigia in pochissimo tempo diventando anche MVP nel 1995, ma ci sarà bisogno di Duncan per regalargli quell'anello che Hakeem Olajuwon gli sottraette proprio nel 1995 "facendolo girare come una trottola" nelle Conference Finals.

IL PRESENTE E IL FUTURO - Quando, dopo il draft 2011, Buford decise di cedere George Hill, reduce da un'ottima annata, a Indiana in campo di un rookie appena uscito da San Diego State, non pochi storsero il naso. Il primo anno infatti fu abbastanza rivedibile: bene ma non benissimo, sarebbe stato meglio insistere su Hill forse. Dal secondo anno però le cose cominciarono a cambiare: Kawhi Leonard diventò presenza fissa in quintetto e uomo difensivo chiave per Popovich, che gli affida sempre in marcatura l'avversario più difficile. Nell'ultima stagione ha dovuto marcare prima Kevin Durant e poi LeBron James, limitandoli come è stato visto fare a pochi. Le sue braccia lunghissime e le mani giganti lo aiutano, ma il vero punto di forza di questo ragazzo è la mentalità vincente: è uno che parla poco, sempre con la testa sulle spalle, caratteristiche che ricordano per certi versi Tim Duncan. Forse è anche per questo che piace così tanto a coach Pop, oltre che per il suo talento e ampio potenziale. Gran lavoratore, caratteristica che ha preso dal papà, quando già da piccolo lavorava nell'autolavaggio di famiglia a Compton, fino al fattaccio del 18 gennaio 2008: Mark Leonard fu ucciso proprio mentre, come ogni giorno, era al lavoro. Kawhi aveva solo 16 anni, e quel lutto lo rese ancora più forte interiormente. Oggi, dopo esser stato il terzo MVP delle Finals più giovane di sempre, è pronto ad accollarsi il peso della franchigia insieme a Parker, visto il ritiro di Duncan e Ginobili a fine stagione. E tra le sue grandi mani si può star sicuri che San Antonio non decadrà.

IL CONDOTTIERO - Da qualche anno, da quando si parla di decadenza degli Spurs insomma, ci si chiede quando Gregg Popovich lascerà la panchina. Per togliere ogni tipo di dubbio, la scorsa estate l'allenatore di origini serbo-croate ha rinnovato il suo contratto con la sua franchigia fino al 2018. Obiettivamente, dopo tutto quel che ha costruito, lasciar San Antonio per lui sarebbe come andare via di casa: arrivato nel 1996, dopo una parentesi dall'88 al '92 come assistente, non ha mai sfiorato l'idea di sedersi su un'altra panchina. In Texas ha creato quello che potrebbe essere definito il suo regno: lavoro duro, mentalità, voglia di vincere e non mollare mai. Ciò lo fa apparire come un generale, immagine sbagliatissima: chiunque sia passato da San Antonio non è più andato via proprio per merito suo. Marco Belinelli dice di lui che "è tuo padre, un tuo amico oltre che il tuo allenatore". E soprattutto è un vincente, il suo palmares parla per lui: 5 titoli, tre volte allenatore dell'anno (2003, 2012, 2014), altrettante volte chiamato all'All Star Game. Gli ultimi due punti interessano relativamente a uno come lui, che pensa prima di tutto alla squadra, e raramente lo abbiamo visto festeggiare un titolo insieme ai suoi giocatori. O almeno fino allo scorso giugno, quando si è lasciato andare anche lui alla gioia per "the most beautiful win".

THE ITALIAN JOB - Qualche mese fa la storia è stata scritta per davvero. Fino a 20-25 anni fa sarebbe stato da pazzi pensare che un italiano, o più in generale un europeo, avrebbe vinto un titolo NBA, da manicomio pensare che l'ipotetico soggetto in questione potesse avere un ruolo comunque importante e non da semplice sventola-asciugamani. Bene, quel 16 giugno una nazione intera ha esultato per Marco Belinelli, primo italiano a mettersi un anello al dito. Dai precursori Rusconi ed Esposito, passando per la first pick Bargnani, fino al Gallo in New York e Datome, è stato proprio lui a trionfare. Scelto da Golden State nel 2007, Beli ha avuto difficoltà non indifferenti a inserirsi nella lega: tanta panchina, pochissimo spazio, a tratti la rassegnazione. Però Marco non molla: passa da Toronto (maluccio), New Orleans (molto meglio) e poi Chicago, dove trova la sua annata migliore. In estate la telefonata dal Texas, con Popovich che lo vuole portare a San Antonio per "raccogliere l'eredità" di Gary Neal. Belinelli non ci pensa due volte e firma al volo, e a dargli ragione ora c'è qualcosa sulla sua mano, dopo un primo anno eccellente, nel quale Marco è entrato perfettamente nei meccanismi degli Spurs sotto ogni punto di vista, in particolare quello dei movimenti senza palla. E la storia non è ancora finita...

COSA ASPETTARSI? - Difficile però pensare che San Antonio possa ripetere l'incredibile corsa della stagione passata. Sì, il roster è sempre quello con un Kyle Anderson in più, e se si può dire che i veterani hanno comunque un anno in più, anche i giovani hanno un anno in più di esperienza. Questione anche, se non soprattutto mentale: gli sforzi della scorsa stagione sono stati enormi, rifarli per due volte di fila con gli stessi identici giocatori è difficile da pensare, nonostante Popovich sia un grandissimo motivatore. La soluzione migliore sarebbe quella di cominciare a dare responsabilità ai giovani (anche se Kawhi ne ha già abbastanza sulle spalle), togliendone magari un po' ai veterani Ginobili e Duncan. Insomma, utilizzare l'ultima stagione di quelli che finalmente sono diventati "vecchi" come passerella per loro, cercando di veder di più in campo i vari Anderson, Mills, Splitter, lo stesso Marco e soprattutto Kawhi Leonard. Presente e futuro, perchè se in Texas "everything is bigger", a San Antonio le cose le fanno ancora più in grande.