Lo spirito dei guerrieri per la squadra degli upset più clamorosi della storia del gioco. I Warriors furono fondati a Filadelfia, nel 1946, come Philadelphia Warriors e sotto questo nominativo vincono due dei tre titoli presenti in bacheca. Il primo addirittura al primo anno di nascita (BAA), il secondo qualche anno più tardi, nel 55-56. Da allora e fino al trasferimento nella baia del 62 furono sconfitti per tre volte in cinque anni dai Boston Celtics. In quella squadra che si trasferì a San Francisco la star era un giovane Wilt Chamberlain, scambiato successivamente. La scelta di Rick Barry al draft del ‘65 permise a San Francisco di restare tra le prime squadre del panorama nazionale per il decennio successivo: 9 apparizioni alla postseason in 12 anni, 6 finali di conference, 2 finali Nba ed un titolo, l’ultimo nel 74-75. Quei Warriors, che avevano già preso il nome di Golden State da qualche anno, furono protagonisti di uno degli upset più clamorosi della storia Nba e sconfissero in ordine Seattle, Chicago e Washington in finale. L’upset sembra essere nel Dna, nell’animo della squadra. Nonostante l’animo guerriero, dalla metà degli anni settanta ad oggi raramente si è riuscito a costruire un progetto degno di nome. Il periodo migliore della squadra fu legato alla presenza in maglia Warriors di Chris Mullin, eccellente tiratore dal perimetro, ma troppo spesso vittima dei suoi problemi con l’alcool. La squadra di coach Nelson centrò cinque qualificazioni ai playoff, ma senza mai stupire più di tanto, nonostante la presenza di giocatori come Tim Hardway, Mitch Richmond, Billy Owens, Latrell Sprewell, oltre al già citato ed all-star Mullin.

L'UPSET DELLA STORIA - Dopo un altro quindicennio di vuoto totale, la stagione 2006 vede il ritorno in panchina di Nelson e richiama alla storia i gloriosi Warriors. Arenas, Matt Barnes, Al Harrington e soprattutto l’Mvp romantico di quella postseason, Baron Davis, mettono a segno il colpo più bello della storia recente dei playoff: i Dallas Mavericks di Nowitzki si piegano per 4-2 sotto le giocate del barone che fa letteralmente impazzire avversari e baia. Da allora altre cinque stagioni di profondo rinnovamento, ma questa volta sembra che il lavoro stia procedendo al meglio. Programmazione, scelte e giocatori sembrano andare tutte nel verso giusto. Due apparizioni di seguito ai playoff ed una squadra finalmente completa potrebbero restituire alla baia i guerrieri di un tempo. Alla loro guida, il guerriero per eccellenza.

BE READY – Un leader nato, un guerriero nella vita come in campo, senza paura di niente, che si è fatto trovare pronto in qualsiasi situazione che la vita gli abbia messo di fronte. Steve Kerr è nato in Libano, dove ha passato gran parte della sua infanzia al seguito del padre che lavorava lì per conto del governo americano. Nel 1984 Malcolm Kerr viene assassinato da un sospetto militante nazionalista in Libano e la famiglia Kerr torna in patria. Steve giocherà per Arizona University, con la quale parteciperà alle Final Four NCAA nell’88. La carriera di Steve da cestista professionista, tocca il punto più alto con i titoli ai Chicago Bulls dopo il ritorno di Michael Jordan, ma anche in questo caso non è stato tutto così facile come sembra. La famigerata scazzottata in allenamento tra i due significherà molto per Michael che da quel momento rispetterà molto di più il giovane Steve. La fiducia di Jordan nei suoi confronti verrà ripagata da Kerr nella gara 6 delle Nba Finals 1997 allo United Center di Chicago. 86 pari, timeout Bulls. Ovviamente, palla a Michael. Tutti sanno che Jordan prenderà quel tiro, ma “air” va da Steve e gli sussurra all’orecchio “be ready”, leggendo in anticipo quello che succederà in campo a breve. E così fu: raddoppio di Stockton che lascia libero Steve sul perimetro; scarico perfetto e, puntuale come un orologio svizzero, arriva il “nothing but net” per il quinto anello Bulls. Negli anni successivi arrivano altri due titoli, questa volta San Antonio Spurs. Infine, dopo esser stato presidente delle operazioni dei Phoenix Suns e, commentatore televisivo per Tnt e Cbs, inizia la carriera da allenatore. Potrebbero essere i warriors la squadra giusta per lanciare una grande carriera anche da allenatore? Ci proverà con l'aiuto di uno stratega sopraffino come Alvin Gentry. Sostituire Marc Jackson, nel cuore dei tifosi, dei giocatori e anche nei risultati sarà difficile, ma Steve ci proverà come ha sempre affrontato qualsiasi prova nella sua vita: a testa alta.

IT'S SPLASH TIME Che Stephen Curry e Klay Thompson fossero l’asse portante delle fortune dei Warriors era risaputo e la convocazione degli “splash borthers” nel team nazionale ai Mondiali spagnoli ne ha confermato la crescita e le qualità. Ma dov’è che i nuovi Golden State Warriors devono migliorare per fare il definitivo salto di qualità? A Steve Kerr il compito difficile ma non impossibile, considerando anche il roster a sua disposizione, di migliorare il record di vittorie in stagione, ma soprattutto il rendimento ai playoff di una squadra che si scioglie troppo facilmente nei momenti difficili di una serie playoff e nei 48 minuti stessi di una gara. Il lavoro di Kerr verterà sicuramente nel limitare il numero di palle perse e migliorare le situazioni statiche di uno contro uno, sia esternamente che in post basso che spesso penalizzavano la squadra nei momenti decisivi di una gara e di una serie. Ma come? Rispetto ai Warriors degli scorsi anni le intenzioni di Kerr sono di muovere di più la palla e non farla stanziare nelle mani di Curry o chiunque altro. Molto spesso vedevamo l’attacco dei Warriors iniziare l’azione con un pick and roll centrale di Curry, con Klay in posizione di guardia, Iguodala fermo in angolo e Lee che saliva in post alto per giocare gli isolamenti che ne conseguivano dalle sponde del p&r. Risultato era che troppo spesso ci si affidava alle individualità. Rispetto a questa visione più stantia del gioco, Kerr utilizzerà con ogni probabilità molto più movimento di uomini e palla: “vogliamo correre, muovere la palla e segnare il più presto possibile. Ma credo che vedrete molti concetti della triangolo a difesa schierata, ma non quella degli anni ’90”. Ecco, il concetto principale di base potrebbe essere quello della triangolo dei Bulls di Phil Jackson, ma rivisitato in chiave moderna. Abbinare la motion offense degli Spurs per finire con l’attacco triangolo sembra utopia ma, considerando l’esperienza da giocatore sia ai Bulls che agli Spurs di Kerr, non sembra del tutto un'idea da scartare. Bogut potrebbe essere il giusto post basso dalle mani di clavicembalista che servono per aprire il gioco sul lato debole, ribaltando l’azione per qualche tiratore o penetratore. In quest’ottica, le situazioni di post basso dovranno essere cavalcate sì, ma in situazioni dinamiche, dopo aver mosso la difesa avversaria e non come idea di partenza di un attacco. Ciò potrebbe permettere, oltre ad un miglioramento delle percentuali di squadra, di sfruttare inoltre i tagli lato debole di Iguodala e Lee, già visti nelle precedenti edizioni. Il potenziale offensivo a disposizione di Kerr è di sicuro più che notevole; uno degli starting five con più punti nelle mani e talento di tutta la Nba, fatto di tanto atletismo, tiro e fisicità.

I NUOVI WARRIORS– Poco sembra essere cambiato dalle parti di Oakland, quantomeno nello starting five. La decisione di ritirarsi dalla corsa a Kevin Love, continuando a puntare forte su Klay Thompson e su un’ossatura già bella compatta hanno fatto sì che le scelte estive cambiassero target. L’obiettivo principale è stato il rafforzamento della panchina, cercando di dare più profondità al roster nei ruoli nei quali si necessitava. Il quintetto base, quindi, resta quello dell’ultima stagione di Marc Jackson con Curry, Thompson (18.4 ppg, 3.1 rpg, 2.2 apg), Iguodala (9.3 ppg, 4.7 rpg, 4.2 apg), Lee (18.2 ppg, 9.3 rpg, 2.1 apg) e Bogut, sperando che il centro australiano passi più tempo sul parquet che in infermeria. Quello che sembra cambiare però è la composizione della second unit. Gli investimenti, apparentemente mirati, della offseason, hanno portato nel roster di Steve Kerr due giocatori di “sistema” che sicuramente porteranno esperienza ed affidabilità nei momenti difficili delle gare, in grado di dare fiato agli splash brothers: Shaun Livingston, Brendon Rush e Leandro Barbosa. I tre, uniti ai già presenti Harrison Barnes, Draymond Green (6.2 ppg, 5.0 rpg, 1.9 apg), Jordan Crawford e Marreese Speights, formano una second unit di tutto rispetto. La profondità del roster potrebbe essere la marcia in più per puntare molto in alto.

LA STELLA Le intenzioni bellicose ci sono tutte e, dopo la recente vittoria ai Mondiali, l’animo di Stephen Curry (24.0 ppg, 4.3 rpg, 8.5 apg) è più carico che mai. Il cambio di allenatore l’ha profondamente segnato. Curry era in prima fila nel difendere e sostenere le sorti di Marc Jackson, ma cambiare allenatore, sistema di gioco e mentalità, potrebbero aprirgli nuove porte e farlo maturare definitivamente. Sul giocatore e sul suo talento offensivo, c’è poco da discutere. Parlare del modo in cui si crea spazio per il tiro, del suo step back e del suo uno contro uno sarebbe ridicolo. Le cifre parlano da sole: quasi 7000 punti (20 di media a serata) nelle cinque stagioni fin qui disputate, con il 47% dal campo (44 da tre), il 90% ai liberi ed una presenza costante negli all star Nba. Ma come si migliorano statistiche del genere? Come può migliorare l’impatto di Step sulla sua squadra e condurla verso la vittoria? Beh, nella pallacanestro moderna la base del successo è il movimento della palla. E, sebbene Step nella scorsa stagione sia stato nella top cinque dei realizzatori da pick and roll, le sue stats potrebbero migliorare. Molto spesso le situazioni di gioco sfruttate dal talento uscito da Davidson arrivavano a difesa completamente ferma, senza passaggi: si superava la metà campo, blocco di Lee e splash. D’accordo, ma se i Warriors sono usciti al primo turno dei playoff, vuol dire che qualcosa non andava. Le contromisure ad un attacco del genere si trovano facilmente, che spesso portano Curry a cattive percentuali e palle perse. Kerr porterà situazioni di pick and roll sicuramente dinamche, soltanto dopo un ribaltamento della palla ed aver mosso la difesa a dovere, ritardando gli aiuti permettendo a Step di prendere tiri migliori e con più tranquillità. Il curriculum di Kerr potrebbe essere un’arma a suo favore per convincere Curry a fidarsi ciecamente nelle sue capacità. Triangolo e motion offense a disposizione di uno degli attaccanti più forti della Lega.

LA SORPRESALa redenzione di Harrison Barnes passa dalle mani, sapienti, di Steve Kerr. Il prodotto di North Carolina dopo un ottima prima stagione ha visto sì crescere i minuti sul parquet, ma anche un notevole ridimensionamento del suo rendimento. Motivo? Il ragazzo ha patito più di altri il non – sistema di Marc Jackson. Le idee confusionarie dell’ex coach che preferiva uno stile di gioco più statico ed incentrato maggiormente sulle individualità e sull’invenzione personale, non ha favorito la definitiva esplosione di Harrison. Proprio in quest’ottica, l’esperienza di Steve Kerr in due squadre fatte di sistemi rigidi e di letture come Bulls e Spurs, potrebbe permettere a Barnes di tornare ai tempi del college, dove nel sistema dei Tar Heels è letteralmente cresciuto ed esploso. Per questo Harrison Barnes potrebbe essere la piacevole sorpresa della second unit dei Warriors, che potrebbe risultare molto più decisiva rispetto al recente passato.

OBIETTIVO MINIMO: SEMIFINALI DI CONFERENCE – Migliorare il risultato dello scorso anno è la conditio sine qua non del contratto firmato da Steve Kerr. D’accordo, una squadra completamente rifondata dopo quasi vent’anni di sporadiche apparizioni ai playoff, che raggiunge per due anni di fila la postseason, ha sicuramente fatto un ottimo risultato. Ma da una rosa e da giocatori del genere, era ed è tutt’ora lecito aspettarsi di più. Partire dal record dello scorso anno (51-31) per migliorarlo e guadagnarsi il fattore campo in un primo turno di playoff è l’obiettivo iniziale. La top four ad ovest sarebbe un risultato di tutto rispetto, ma non basta. Negli ultimi due anni i giovani Warriors hanno sempre sofferto nella postseason: 4-2 ai non irresistibili Nuggets di due anni fa, e due sconfitte, anche se molto diverse tra loro. Contro gli Spurs l’eliminazione passò come più che onorevole, mentre quella dello scorso anno, quando ci si aspettava il definitivo salto di qualità, contro i Clippers, è stata vista come cocente delusione. L’obiettivo minimo di quest’anno, dando per scontata la qualificazione alla post season, sarà quello di arrivare quantomeno alle semifinali di Conference. Una volta lì, tra l’entusiasmo e l’inferno della Oracle Arena, sognare diventerà lecito. Da metà anni ottanta ad oggi, otto apparizioni alla postseason con cinque sconfitte in semifinale; Curry vuole sfatare anche questo tabù.