Noi viviamo nel tempo. Il passare degli anni ci forgia, eppure a volte si ha come la sensazione di non riuscire a capire fino in fondo il senso degli eventi. Quando si è giovani si vive quel senso di immortalità e di onnipotenza tipico di chi non ha paura di nulla. E questo spirito può protrarsi avanti per anni, imperterrito, perché in fondo cos’è la vita senza quel brivido di sana follia che divide la vittoria dalla sconfitta?

Poi arriva, per forza di cose, un momento in cui il destino, o chi per lui, ci insegna la malleabilità del tempo. E’ un momento in cui ti trovi solo con te stesso e il peso dei tuoi sogni a fare i conti con la dura realtà dei fatti. C’è chi non regge il colpo e lascia perdere tutto. C’è chi ci prova a reagire, ma poi crolla di fronte alle mille avversità. Poi ci sono persone che hanno una vera e propria ossessione che li spinge sempre oltre i propri limiti, perché per loro resistere alle intemperie della vita vuol dire vincere.

Kobe Bryant non può essere definito un giocatore normale. Nell’ultima decade pochi sono stati tanto determinanti quanto è stato lui per i Los Angeles Lakers. Il bello dei campioni longevi come il Mamba è che il tempo ci dà l’occasione per osservare tutte le sfumature di come si possa costruire una leadership in grado di durare nonostante il passare delle stagioni e l’avanzare incessante dell’età. E’ interessante osservare i dettagli di una carriera perché la differenza tra un giocatore “normale” e un campione assoluto sta proprio in questo, nelle piccolezze che piano piano finiscono col diventare punti di forza.

Per esempio l’allenamento. Kobe Bryant è un maniaco ossessivo del training pre e post gara, il ghiaccio in questi 20 anni di NBA è diventato il suo miglior amico. Basti pensare che la mattina dell’11 Settembre 2001, Kobe vive in diretta l’attentato alle Torri Gemelle perché lui alle 4 di mattina a Los Angeles è già sveglio per allenarsi. D’altronde sul suo corpo il chilometraggio è pazzesco, visto che è arrivato in NBA senza passare dal College, puntando solo su se stesso e sulla sua ossessione al limite del demoniaco di vincere sempre e comunque.

E questa sua voglia di vincere l’ha portato a scontrarsi con parecchi compagni di squadra che si lamentavano perché Kobe voleva essere leader anche con giocatori che avevano il doppio dei suoi anni. “Guarda che per me potresti migliorare se giocassi un po’ più qui, vicino al pitturato, e sfruttassi i miei scarichi”, diceva. “Ma chi sei tu, pivello?” si sentiva rispondere. Phil Jackson nei suoi libri ne ha parlato tanto delle riunioni indette tra i giocatori del roster dei Lakers per parlare di questo argomento. Non che con Coach Zen Kobe non si sia scontrato, anzi. Però tra i due si è instaurato un rapporto quasi mistico, difatti Jackson è uno dei pochi di cui Bryant si fidi, tanto che li si vede spesso fare colazione insieme in qualche Boulevard di LA.

Nei suoi primi anni ai Lakers poi ha tenuto banco (e qualcuno ne parla ancora) il dualismo con Shaquille O’Neal. I due, che lottavano per il ruolo di uomo franchigia, non si sono mai ben visti. Mah, lasciatemi dire che la cosa mi trova abbastanza indifferente. Shaq è stato qualcosa di unico, memorabile, però Kobe, con il suo mix di inesperienza e sana follia (di cui sopra) non ha sfigurato. Il Three-peat di inizio 2000 non lo reputo come “la striscia di Shaq”, ma come la vittoria di una grande squadra, allenata da un fantastico coach e con due giocatori incredibili che saranno ricordati per sempre. Quando si parla di Shaq-Kobe dovrebbe venire in mente il mitico lob con cui il #24 ha mandato a canestro O’Neal in gara-7 contro Portland, non qualche avara polemica innescata dai giornali.

Kobe però non è stato solo questo. Man mano che le stagioni passano, e gli allenatori si avvicendavano sulla panchina, e i compagni cambiavano casacca, lui è rimasto lì, a lavorare per tornare a vincere. Non che l’idea di andare via non gli fosse mai venuta, anzi. Però alla fine diventare un simbolo dei Lakers (e un cospicuo contratto) l’hanno convinto a rimanere. E’ stato fantastico vedere come si è caricato la squadra sulle spalle, sentendosi “da solo sull’isola” e piazzando delle prestazioni mostruose quando tutto sembrava perduto. Gli 81 punti valgono un record, ma il terzo quarto leggendario contro i Celtics in gara5 delle Finals 2010 vale più di una semplice scritta. Il Mamba vede che la squadra soffre, non riesce a reagire e allora decide di giocare 1 - 5, segnando l’impossibile. Segna 19 punti consecutivi nel terzo quarto e 38 in totale che però non basteranno alla squadra per vincere.

L’anno prima a Denver si era giocata una partita simile: gara6 di Western Conference Final, i Lakers sul 3-2 vanno sulle montagne del Colorado per chiudere la serie e andare a conquistare l’ennesimo titolo della loro gloriosa storia. Kobe Bryant in quella partita è semplicemente ovunque: difende, attacca, nei time-out parla alla squadra e catechizza i compagni, infonde in loro quella meravigliosa sensazione qual è sentirsi invincibili. Lo fa a muso duro però, vuole vedere chi ha il coraggio di seguirlo fino alla morte per conquistare tutto. Stare dietro al Mamba non è facile, sia chiaro, però è garanzia di vittoria. Per la cronaca in entrambe le serie risulterà vittorioso e si porterà a casa altri due anelli.

Cinque anelli possono rappresentare un traguardo incredibile, degno di una carriera da Hall Of Fame. Piccolo problema: il Mamba sente ancora l’odore del sangue e non si sente ancora finito. Manca ancora un ultimo titolo all’elenco di Kobe, quello che lo isserebbe al livello di Michael Jordan. Ma più dei titoli di MJ, la verità è un’altra: un vincente non è mai stanco di vincere. Ecco perché Kobe ha sprintato al massimo, sempre e contro chiunque, convinto di essere invincibile e che il suo corpo iper allenato avrebbe resistito all’usura del tempo e agli urti di una vita sempre in prima linea.

Nell’Aprile scorso, però, il crac. Un movimento classico dell’arsenale di Bryant, ma questa volta letale. Il Mamba, che aveva promesso a Jerry Buss -il proprietario dei Lakers morto il 18 febbraio 2013- di portare i Lakers ai playoffs nonostante la terribile stagione, è uscito di scena nelle ultime battute della partita contro i Golden State Warriors, subendo fallo e segnando due commoventi tiri liberi su una gamba sola, portato poi fuori a braccia dai compagni tra gli applausi dello Staples Center che urlava all’unisono “M-V-P, M-V-P”.

Cos’altro può essere un uomo che ha dedicato tutta la sua vita al diventare il migliore? Sono stati mesi difficili per Kobe che però spinto dalla matta voglia di tornare in campo ha continuato a lavorare per recuperare dall’infortunio al tallone d’Achille, aggiornando giorno dopo giorno la sua tabella di recupero. Ora il giorno è finalmente arrivato. Dopo tanta attesa, e con un nuovo rinnovo contrattuale di due anni appena firmato, Black Mamba is back. Per cui ci sarà tempo per le Memories vere e proprie, per l’elogio alla follia di uno dei più grandi di sempre. Per ora fermiamoci un attimo tutti e sintonizziamo ancora una volta la televisione sulla partita dei Los Angeles Lakers. Bisogna vivere gli ultimi due capitoli fino all'ultimo respiro.

Kobe Bryant is on the air.