Il "caso Russia" tiene banco ormai da circa due anni. Un doping di stato, con le autorità politiche a contaminare la regolarità dell'azione sportiva. Un sistema costruito "dall'alto" per aggirare le normative vigenti, per superare i controlli del caso. Un'accusa pesante, il "rapporto McLaren" come punto di forza dell'attacco. L'esclusione dall'Olimpiade di Rio come conseguenza primaria, la sospensione quasi totale delle attività. Nel dicembre 2016, poi, la seconda parte del rapporto, una macchia che va a toccare anche le precedenti olimpiadi invernali.
Dieci mesi dopo, un passo indietro, uno scivolone pesante. Il New York Times annuncia l'assoluzione di 95 atleti su 96. Il numero esiguo - 1115 gli atleti coinvolti - non deve sminuire la portata della notizia, stiamo parlando di una colossale retromarcia, una porta spalancata al ritorno della Russia. Si parla di prove insufficienti, si procede a "strappi", senza un'apparente linea di demarcazione.
"L'assenza di prove non determina l'innocenza della Russia", Niggli, direttore generale della Wada, smorza i toni, l'inchiesta è tuttora in corso ed è difficile dare un giudizio definitivo sulla vicenda. La figura di Rodchenkov, ex capo del laboratorio di Mosca e poi testimone-accusatore, ricopre un ruolo chiave, manca una sua testimonianza diretta, una netta presa di posizione. Questo consente alla Russia di intravedere un possibile esito positivo, il ritorno di Mutko - vice primo ministro dello sport russo - è immediato. "Montante" alla Wada ed attacco a Rodchenkov.
Sulla scacchiera si muovono pedine pesanti, il rischio tangibile è di una grossa bolla di sapone, pronta ad esplodere senza effetti.
Fonte GDS