Un Giro d'Italia mai così incerto ha appassionato gli spettatori di ciclismo fino all'ultimo metro della cronometro conclusiva, dall'autodromo di Monza al Duomo di Milano. Cosa chiedere di più all'edizione del Centenario, al Giro Infinito che celebrava se stesso e la sua storia? Poco o nulla, dal punto di vista della suspense e del senso del brivido, qualcosa di diverso riguardo il percorso, estremo e in certi casi disegnato in maniera cervellotica. 

E' stato un Giro che ha dovuto tenere in considerazione tutte le specificità geografiche del Belpaese. Ecco spiegata la partenza dalla Sardegna e il successivo sbarco in Sicilia. Ne è derivata però una corsa sbilanciata, tutto sommato agevole nelle prime due settimane, durissima nella terza, con tappe di montagne poste una dietro l'altra senza soluzione di continuità. L'iniziale trittico sardo ha confermato di essere appannaggio dei velocisti. Nessuna imboscata sul San Bartolomeo nella tappa di apertura ad Olbia, zero sussulti nella successiva frazione di Tortolì. Discorso simile per il primo arrivo in quota, quello dell'Etna, salita vera ma con caratteristiche particolari (vento e strada ampia), che ha impedito agli scalatori puri di provare a fare il vuoto. Le prime dieci tappe hanno così vissuto sull'attenzione mediatica catturata da Fernando Gaviria, fenomeno di ventidue anni, mostratosi in tutto il suo splendore nelle volate di gruppo.

Non hanno fatto danni in classifica generale gli arrivi mossi di Terme Luigiane e Peschici, in un Giro caratterizzato dall'attendismo. Troppo importante la posta in palio, troppo dura la seconda parte della corsa rosa per prodursi in azioni avventate. Ecco che i primi distacchi si sono visti sulla salita del Blockhaus, giunta dopo oltre una settimana, con il pasticcio della moto su cui hanno fatto strike anche alcuni big (Geraint Thomas, Mikel Landa e Adam Yates su tutti). In Abruzzo Quintana è parso padrone del Giro, salvo essere costretto a rincorrere dopo la cronometro stile Tour de France di Montefalco, dominata da Tom Dumoulin, da martedì 16 maggio divenuto nuovo punto di riferimento della corsa. 

Sì, perchè dopo altre tappe per velocisti - e la frazione ondulata di Bagno di Romagna - l'arrivo di Oropa ha sorriso ancora all'olandese. Un traguardo in salita non preceduto da altri gran premi della montagna, che ha premiato la potenza della farfalla di Maastricht, capace di togliersi di ruota sia Quintana che Nibali. Un Nibali che ha fatto sommessamente notare come ci sia differenza tra arrivi in salita al termine di percorsi pianeggianti e traguardi in quota all'esito di veri tapponi di montagna. Non a caso, lo Squalo dello Stretto ha fatto la differenza a Bormio, dopo aver attaccato sul versante svizzero dello Stelvio ed essersi lanciato a tutta velocità in discesa, in una frazione in cui il Mortirolo, montagna simbolo della storia del Giro, è stato confinato in apertura, ai limiti dell'irrilevanza tecnico-tattica.

L'ultima settimana ha visto corridori trascinarsi su e giù per Dolomiti e Alpi Giulie: ecco perchè sarebbe stato più funzionale allo spettacolo inserire qui una tappa per velocisti, spariti dieci giorni prima di Milano, anche per far rifiatare i protagonisti della generale. Si è invece insistito in frazioni di montagna, con salite dure ma non durissime: si pensi agli arrivi di Ortisei e Asiago, traguardi posti al termine di ascese per buoni tratti pedalabili, dove è stato complicato fare la differenza. Ecco perchè anche un Dumoulin in difficoltà è riuscito a salvarsi, come accaduto a Piancavallo: le pendenze lo hanno aiutato, la cronometro conclusiva lo ha esaltato. E' stato un Giro che ha cercato di contemperare esigenze diverse: la montagna con la cronometro e le salite con pendenze mai sopra il 10%. Obiettivo centrato, perchè l'incertezza ha regnato fino alla fine, ma con troppi palcoscenici storici lasciati in soffitta.