Se dovessimo descrivere gli ultimi due anni di Vincenzo Nibali non basterebbe un semplice pezzo di mille e più parole. 
Probabilmente ci penserà lui stesso, con una biografia alla fine della sua carriera agonistica, a dirci cosa ha rappresentato per lui questo periodo di tempo, innanzitutto dal punto di vista umano e poi da quello strettamente sportivo. 
Perché è evidente come dopo la vittoria del Tour de France 2014 il corridore siciliano non sia più riuscito ad essere quello di una volta. 
I problemi con la squadra e le voci di un addio imminente, le difficoltà nel trovare continuità nell'arco delle tre settimane, il rapporto non idilliaco con alcuni giornalisti e soprattutto i risultati che stentavano ad arrivare, hanno reso questi due anni un vero e proprio calvario.

Il punto più basso lo ha raggiunto, come ha ammesso lui stesso, dopo la cronoscalata dell'Alpe di Siusi.
Nel momento in cui avrebbe dovuto fare la differenza, guadagnando sui rivali più accreditati, è caduto fragorosamente. E quando cadi senza toccare l'asfalto, non è detto che faccia meno male...
Alcuni gli avevano suggerito di abbandonare la corsa rosa e di preparare il Tour. Lui ha cercato di razionalizzare la situazione, effettuando dei test clinici che provassero a spiegare il perché di questa debacle inaspettata. "Mi sento bene, non capisco cosa mi stia succedendo" ha ribadito più volte all'inizio di questa settimana.  
Lo ha fatto con il morale sotto i piedi, evitando in alcuni casi di presentarsi ai microfoni dei giornalisti. Molti lo hanno criticato per essersi chiuso in sè stesso, un appunto condivisibile e condiviso dal sottoscritto. 
È giusto analizzare le sconfitte, così come le vittorie. È altrettanto vero, però, che a volte la delusione ed il nervosismo post-tappa possono portare a delle reazioni scomposte, un atteggiamento perfettamente umano. 

E qui veniamo al punto. Perché Vincenzo Nibali è l'eroe più umano che ci sia nel panorama ciclistico internazionale. 
Non ha il talento puro degli altri grandi delle corse a tappe: Froome, Contador, Quintana e forse anche lo stesso Aru hanno qualcosa in più in termini di esplosività e cambio di passo. 
Nibali, però, a differenza dei suoi rivali possiede qualcosa di altrettanto prezioso: il coraggio
E in questo Giro d'Italia lo ha dimostrato ancora una volta, recuperando quasi cinque minuti in classifica generale nelle ultime due tappe di montagna. Molti al suo posto avrebbero mollato, provando magari a portare a casa una vittoria di tappa, lui ha rilanciato e ha fatto saltare il banco.
Era il chiaro favorito della vigilia in un Giro con pochi atleti all'altezza del suo palmares e con una squadra che si è dimostrata un'autentica corazzata. Tornare a casa a bocca asciutta sarebbe stato un colpo devastante, un montante che si è rifiutato di subire.

È facile cadere nella retorica provando a raccontare un'impresa del genere, una trappola nella quale rischia di affondare anche questo pezzo. 
Ma quanto realizzato da Nibali ha pochi eguali nella storia recente di questo sport. 
L'unico paragone che mi sento di effettuare è quello con la Vuelta 2012, quando Alberto Contador, un altro al quale non mancano fantasia e coraggio, rivoltò come un calzino una corsa che sembrava persa, inventandosi un'azione a 50 km dal traguardo in una tappa relativamente tranquilla dal punto di vista altimetrico. 

Le grandi imprese spesso e volentieri nascono anche da episodi fortunati. E la caduta di Kruijswijk entra di diritto in questa categoria.
Senza il fragoroso tonfo sulla neve dell'olandese sarebbero cambiate le dinamiche tattiche ed emotive della gara e oggi probabilmente staremmo raccontando un'altra storia. 
Il momento chiave, però, della rinascita di Nibali arriva in cima al Colle dell'Agnello. Superati i 2000 metri di altitudine, lo Squalo dello Stretto sente, per una volta, di stare meglio degli altri. 
Non subisce le accelerate di Chavez, anzi rilancia e vede nel volto dei contendenti la fatica delle tre settimane. 
Uno sforzo fisico ed emotivo che lui è abituato a sostenere, perchè proprio la resistenza al lungo sforzo è una delle sue caratteristiche migliori. 

Anche l'anno scorso al Tour de France ha passato due settimane difficili, salvo poi crescere di condizione nel corso della terza settimana. 
È evidente come Nibali, in questa fase della carriera, soffra i cambi di ritmo, le accelerate improvvise che gli impongono di andare fuori soglia. La sua pedalata è più pesante rispetto a due anni fa, poco armonica. In alcuni frangenti sembra quasi lottare contro la bici e durante la cronoscalata dell'Alpe di Siusi, questa inusuale battaglia gli è costata un salto di catena e tanti secondi lasciati per strada. 

In cima al Colle dell'Agnello, però, ogni pensiero negativo e pressione psicologica sono svanite. Laddove l'aria si fa più rarefatta, Nibali trova magicamente la lucidità ed imbocca a tutta la discesa successiva. 
Da lì in poi sarà tutto un altro Nibali e le scalate di Risoul, del Colle della Lombarda e di Sant'Anna di Vinadio saranno solo i capitoli conclusivi di un poema epico a quel punto già scritto. 
A differenza degli eroi dell'antica Grecia, però, il corridore messinese è tremendamente umano. Se non lo fosse, oggi, probabilmente, non staremmo parlando di lui con tale trasporto e tale enfasi.
Il ciclismo, come ribadito da voci e penne più autorevoli del sottoscritto, ha perso quel contorno di epicità che lo ha reso uno sport nazional-popolare in Italia. Gli scandali doping e la nuova generazione di corridori, sempre più incline allo sforzo massimo nel minor tempo possibile, hanno reso gli appassionati più disincantati e distaccati. Non per questo, però, meno bramosi di imprese di questo tipo. 
E forse è proprio per la sua umanità in un mondo alla ricerca costante di eroi epici che Vincenzo Nibali è uno dei corridori più amati.