Siamo giunti al terzo appuntamento con Vavel per la cultura sportiva, rubrica dedicata allo sport che non finisce quasi mai in copertina, ma ugualmente suggestivo. Finora abbiamo scritto di snooker e pattinaggio di figura, mentre questa volta torneremo sul "palcoscenico" più conosciuto in Italia e nel mondo: il campo da calcio. Ma da una prospettiva nuova: quella dell'arbitro.

Da dove viene. Quando in Inghilterra alcuni gentlemen decisero di dar vita al calcio, staccandosi dal rugby, la figura dell'arbitro non esisteva: troppo volgare pensare che degli aristocratici non rispettassero le regole, che loro stessi avevano ideato peraltro.

Poi, quando il movimento iniziò a crescere e verso la fine dell'Ottocento nacquero le prime società e campionati, ecco che la necessità di una figura super-partes si fece sentire. Se poi aggiungiamo che fu introdotto anche il fuorigioco, la sua presenza divenne obbligatoria per evitare parapiglia.

Dalla fine del XIX secolo a oggi sono cambiate regole, introdotte nuove norme, il calcio è cresciuto e si è diffuso in tutto il mondo. Ma la presenza di un giudice con il fischietto in campo non è mai mancata: insultata, applaudita, umiliata ma sempre presente.

Sicuramente, quando si pensa a chi scende in campo la domenica, non si parla subito dell'arbitro: è solo un "ornamento", dopo giocatori, dirigenti e porta-borracce. Peccato che senza di lui non si gioca, dettaglio futile ma doveroso da ricordare a chi passa 90 minuti sugli spalti a lanciare insulti nella sua direzione.

Perché fare l'arbitro. C'è comunque chi se ne infischia degli esaltati antisportivi, o magari non ne ha piena coscienza, e decide di provare a vestire la divisa dell'AIA (Associazione Italiana Arbitri): sono quei ragazzi da 15 anni in su che ogni anno fanno il corso nelle centinaia di sezioni in tutta Italia, incuriositi da un ruolo quasi mai calcolato.

Nel caso di Nicola Rizzoli, giusto uno considerato il "non plus ultra" dei fischietti al mondo, la scelta è stata per sfida nei confronti di un direttore di gara avuto in partita, quando era ancora calciatore. Poi ha scoperto un mondo, come racconta nella sua biografia, e lo stesso vale per tantissimi altri giovani.

Scendere in campo la domenica mattina, spesso in campi di periferia o provincia simili a coltivazioni di patate, potrebbe sembrare una cosa da folli. E forse lo è, dato che la fatica a cui sono chiamati i giovani arbitri, all'inizio del loro percorso nelle categorie giovanili, è tanto: sia fisico che psicologico, dovendo prendere decisioni in nanosecondi e non ascoltare i fischi del pubblico.

Certo, questi non sono martiri: nessuno li obbliga, in cambio della loro direzione l'associazione provvede a inviargli dei rimborsi spese (che variano da categoria e distanza del campo da casa) che poi arrivano quando arrivano. Inoltre, grazie alla tessera, si ha diritto ad entrare gratis in tutti gli stadi italiani, per assistere a partite organizzate dalla FIGC.

Molto più di uno sport. Ciò non toglie che accettare una designazione sia ogni volta una sfida che necessita di coraggio. Ma chi è arbitro lo sa: ha dalla sua il saper decidere, dote che quasi mai si ha dalla nascita e che imparare è dura. Soprattutto in un mondo dove si ha tutto e subito, perdendo di vista il valore del sacrificio e del lavoro. In Sezione e sul campo, invece, i ragazzi imparano a decidere, avendo poi una marcia in più anche nella vita.

Perfino il giocatore più avverso agli arbitri, una volta entrato in contatto con questi, può ricredersi. E scoprire una palestra di vita che lo forma, nello sport quanto nella quotidianità, attraverso le riunioni in Sezione e le partite. Se queste righe vi hanno messo una pulce nell'orecchio, provate a cercare sul sito dell'AIA la Sezione più vicina a voi e iscrivetevi ai corsi gratuiti: da semplice curiosità potrebbe diventare qualcosa di molto più grande.