Alberto Contador occupa una delle ultime posizioni del gruppetto maglia gialla, la corsa, quando mancano circa 10 km al traguardo, e i migliori sono da poco lungo le rampe verso Plateau de Beille, è ormai definita. Davanti, quel che resta della fuga, dietro la maglia gialla, con alcuni superstiti. Il forcing di Majka riduce il plotone a una decina di unità. Contador si sposta e si alza sui pedali. Non è una pedalata fluida, è un'andatura strappata, violenta, una progressione, sotto la pioggia. Il volto è scoperto, occhialini rialzati, negli occhi un fuoco vivo, la fiamma dell'orgoglio. Non è un attacco, è un segnale, "ci sono anch'io". Alberto, cancellato dalla scalata verso La Pierre Saint Martin, rientra nei ranghi poco dopo, Froome non batte ciglio. Il Pistolero non è mai nelle posizioni di testa, quando Quintana scaglia l'offensiva, quando Froome mulina le gambe, Contador è come tirato per i capelli, deve contorcersi, chiedere a se stesso un ultimo sforzo. Risponde, sempre, si incolla alla ruota del colombiano, lascia qualcosa, poco o nulla, solo sul traguardo. Il Tour ha un altro padrone, la doppietta leggendaria è lontana, ma Contador ha classe e orgoglio, le Alpi chiamano Alberto. Sì, c'è anche lui.    

Quando Alberto Contador si ferma e viene assorbito dall'implacabile Thomas, una fascia tricolore sceglie di sfidare le vette del Tour, di replicare, sulla strada, alle voci, discutibili, giunte dal clan kazako. Vincenzo Nibali aumenta l'andatura, metro dopo metro, resta davanti. Lo sguardo ricorda quello di Alberto, è il segno distintivo dei grandi. Un colpo di pedale di Valverde ricuce, ma Nibali è a ruota dello spagnolo, è con i più forti, per la prima volta. Gli occhialini sono appoggiati sul casco, è uno scontro d'intenti, una guerra anche visiva. "Sono qui, non me ne vado". Il ciclismo, nella sua feroce evoluzione, è ormai un circo economico e mediatico con pochi eguali, l'altare ti seduce, ti ammalia, vittorie e popolarità, la polvere, sorniona, attende la tua caduta. Quando cadi dal trono del Tour, il botto è fragoroso, solo se sei un campione puoi provare a rialzarti.

Purito Rodriguez, al Tour, è un nobile decaduto. A Huy, una volata da monarca, su un suo arrivo, su uno strappo che è esplosione, balzo in avanti, resistenza e scatto. Poi i Pirenei, la lenta caduta, il tonfo all'indietro. A Plateau de Beille, Purito parte presto, è lontano, nessuno si preoccupa del vecchio Purito. Compagni d'avventura importanti, scalatori coi baffi, come Bardet, il giovane talento di Francia, o Fuglsang, il nuovo "capitano" dell'Astana. Purito accelera, una, due, tre volte. Riprende Kwiatkowski, da lì è solo con la montagna. La pioggia cade e riga il volto, la fatica disegna smorfie e dolori, Purito c'è, respinge la resa, digrigna i denti, a bocca aperta divora i tornanti. Sul traguardo, le lacrime di gioia, tutto si confonde, è una sensazione che non ha eguali, è l'orgoglio del campione.