Doping, questione delicata. Gli sviluppi del caso Schwazer hanno riaperto discussioni e ancor peggio ferite: se ne è parlato, si continuerà a parlarne, mortificati e combattuti tra la ribellione e la rassegnazione. Molti, troppi, hanno sentenziato e accusato, pochi hanno riflettuto e approfondito, indolenti al bisogno necessario di sviscerare un problema per arrivare alla sua origine e quindi risolverlo.
Tolleranza zero, coppia di termini abusata e ipocrita, per quanto giusta, ha riempito le bocche, mentre gli occhi ciechi impedivano i dovuti distinguo. In inglese userebbero la parola "cheater", imbroglioni e traditori, prima di tutto di sé stessi. E' però pur vero che se l'errore rimane un errore, le condizioni che portano a compierlo sono differenti.
Ritengo che esistano due tipi di atleti dopati: chi è spinto dall'ingordigia, da un'atavica sete di potere e grandezza; chi soccombe alla paura, all'insostenibile rischio di deludere, confondendo il valore sportivo con quello umano. Ugualmente vili, diversamente colpevoli. La prima categoria generalmente non mostra segni di pentimento e si rivela recidiva, la seconda vive la vergogna e tenta una dolorosa risalita verso la libertà personale.
E' curioso e singolare che i furbi senza sensi di colpa siano poi quelli mediaticamente meno attaccati, mentre gli eccessivamente fragili diventino i capri espiatori di una classe, l'intera classe, di bambini capricciosi incapaci di accettare i propri limiti. Come espresso sopra, è una sfaccettatura di viltà e codardia, che impedisce di guardarsi allo specchio e ammettere "esiste chi è più bravo".
Proprio quest'ultimo punto è interessante. Da qui dovrebbe partire una ricostruzione solida e sana, nascere una nuova cultura che previene piuttosto di punire (pene finora doverose, ma spesso pure a libera discrezione). Inutile nascondersi dietro a un dito, viviamo nella società del "massimo guadagno col minimo sforzo" e del "successo e risultati ad ogni costo", diffondendo, esaltando, celebrando modelli contorti di fama e gloria. Rivalutare la dignità umana e il rispetto di sé stessi potrebbe essere già un primo lunghissimo passo.
Non importa se ora tocchi all'atletica, ieri al ciclismo, domani al nuoto. In un vecchio pezzo riguardante Armstrong raccontai di un sondaggio inquietante del 1997, dove, prendere nota, su 198 atleti di vertice il 98% sarebbe stato disposto a prendere sostanze che garantissero un oro olimpico senza essere scoperti, mentre il 50% le avrebbe assunte per vincere tutte le gare cui avrebbero partecipato nell'arco di 5 anni pur certi in seguito di morire per gli effetti avversi. Considerando che il doping è maggiormente diffuso a livello amatoriale, c'è poco da aggiungere.