Istantanee d'Italia. Istantanee a due ruote. Va in archivio il Giro d'Italia. Va in archivio, con il sapore dolce sui palati fini. Va in archivio col sorriso, con la grinta e la forza di Vincenzo Nibali. Più forte di avversari e meteo avverso. Il suo pugno chiuso dopo la cronoscalata di Mori-Polsa, sembra un simbolico schiaffo al doping di Di Luca. L'altra immagine, quella brutta, da dimenticare. Il ciclismo di una volta e quello di oggi. Il ciclismo delle fiale e quello del sudore. L'emotrasfusione e la fatica. Un passaggio di consegne, quasi un testimone dai bari di ieri agli uomini di oggi. Quello di Lavaredo è un Nibali normale, che impiega 2 minuti in più del miglior Danilo di qualche anno prima. Soffre, sotto la neve, arriva stremato e va a coprirsi. Piace, perché appare umano, anche nelle debolezze. Non un cyborg da laboratorio.
Con lui Michele Scarponi. Le sue interviste all'arrivo, la voce spezzata, di chi ha lasciato il cuore, in quelle scalate. Il thè caldo sui guanti incollati alle mani dal gelo dell'infida montagna. Con lui, al suo fianco, il ciondolante Cadel Evans che a 36 anni strappa di testa un podio che spetterebbe ad altri. Ciclista vero l'australiano. Indomabile guerriero. La doppia gioia di Giovanni Visconti, spinto da Pantani, lungo i tortuosi km del Galibier, che resero leggenda la classe del pirata. Una bandana lungo la storia del Tour, immersa nell'epopea del Giro.
Discorso a parte lo merita Mark Cavendish. Cinque volte le braccia al cielo. Cinque volte. Chiude lui a Brescia, dopo venti tappe in cui ha dovuto resistere alle più dure battaglie per conquistare coi denti quella maglia a punti tanto agognata. Lui che ha lasciato la ricca Sky, per essere leader all'Omega Quick Step. Lui che ha discusso e criticato i suoi, che ha dovuto adattarsi a una situazione del tutto nuova e incerta, prima di volare ancora una volta, lungo quegli infiniti rettilinei, che distinguono i buoni velocisti dai fenomeni.
Poi i giovani, che sbagliano, lottano, attaccano, sono l'essenza delle due ruote. Impressa nella mente la rabbia di Betancur, che perde a cronometro la maglia bianca per due secondi e sbatte i pugni al traguardo. Poi la riprende nell'ultima tappa verità e supera Majka, capitano della Saxo, gregario di Contador. Giovane, giovanissimo anche lui, come Aru. Sempre al fianco dello squalo dello Stretto. É il ciclismo di oggi e di domani. Vederli contorcersi sulla bicicletta, anche commettere errori, che è normale commettere a quella età, è bello. Bellissimo. É l'essenza di questo sport. E il pubblico segue e applaude, incurante delle difficoltà ambientali. Grazie a loro, uno sport rovinato dai bari degli anni scorsi prova a rinascere. Come la Fenice risorge dalle sue ceneri.
Poi le immagini degli sconfitti. Hesjedal, il padrone 2012, crolla, ma resiste fin che può. Taglia il traguardo anche con 21 minuti di ritardo, ma arriva e festeggia il compagno Navardauskas. Wiggins, piegato da un'infezione polmonare, dalle infide discese e forse anche dalla sua squadra, con Uran e Henao restii a piegarsi alla volontà del capitano.
L'ultimo “saluto”. Non a caso l'ultimo, perché di più basso livello, è per Lance Armstrong. Ecco il suo cinguettio via twitter, a criticare Danilo Di Luca definito dall'americano “stupido”, desta quantomeno stupore e perplessità. Quasi vergogna. Che un personaggio così abbia ancora il coraggio di parlare è sorprendente. Al peggio non c'è mai fine. Per fortuna c'è la strada. Per fortuna il nuovo avanza.