Mi hanno chiesto di parlare del 2016 della mia Fiorentina. Una lunga annata dove non ci siamo fatti mancare niente. Trofei a parte.
Già, perché è bene partire ricordando che nella competizione in cui avevamo, realisticamente, più possibilità di trionfare, o quantomeno di andarci vicino, siamo stati eliminati dal Carpi. In casa. Senza riuscire neanche a segnare un gol. Roba da far inorridire perfino Dario Argento. Dell’Europa Leauge poi meglio non parlarne dato che la prima squadra seria incontrata (Totthenam ai sedicesimi) ci ha fatto quattro gol in due partite e rispedito a casa “belli caldi”.
E pensare che il 2016 era partito dal Renzo Barbera di Palermo dove una doppietta di Ilicic ci issava al primo posto in classifica. Qualcosa che a Firenze mancava dai tempi di Trapattoni, Rui Costa e Batistuta. Adesso i protagonisti di questo piccolo miracolo portano i nomi di Paulo Sousa, Bernardeschi e Kalinic. Un miracolo durato però soltanto il tempo di un’illusione e svanito con il passare delle giornate a favore di una Juventus che, incomprensibilmente, alcuni avevano dato per morta soltanto perché lontana per un girone intero dalle posizioni che le competono. “Eh, ormai la Juve quest’anno non lo rivince mica lo scudetto”. Certo. E "non ci sono più le mezze stagioni” e “il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”, come no.
(Un miracolo che, comunque, a me mi ha fatto godere parecchio).
Ma torniamo a noi.
Paulo Sousa, Bernardeschi e Kalinic dicevamo. Senza cadere in paragoni blasfemi con realtà intoccabili del passato proviamo fare il punto sui tre principali rappresentanti della realtà viola.
Il tecnico portoghese, arrivato in un clima sereno e disteso come quello intorno al nuovo Ministro dell’Istruzione pubblica, tra cassonetti addobbati con inviti a tornarsene da dove era venuto e una buona dose di diffidenza, ha saputo, sia attraverso le supercazzole stile Amici Miei in conferenza stampa che attraverso i risultati, farsi spazio nei cuori viola (o almeno sicuramente in quello di mia nonna). Per questo deve ringraziare sentitamente quel centravanti arrivato per due soldi che ha fatto scoprire l’uso della lettera K ai fiorentini: Nikola Kalinic. Non mi vergogno di ammettere che quando lessi la notizia del suo arrivo la prima cosa che mi venne in mente fu: “Chi?” come avrebbe sentenziato il buon Maurizio Mosca. Poi, partita dopo partita, rete dopo rete, me ne sono follemente innamorato. Anni passati a cercare un numero nove che non esisteva, nemmeno fossimo stati la Laurenziana. Gomez, Babacar, Keirrison, Tanque Silva. Da mettersi le mani nei capelli. Una seggiola avrebbe fatto più bella figura. E’chiaro, quindi, che ci sarebbe andato bene un po’ chiunque ma il tecnico portoghese teneva d’occhio l’attaccante croato da un bel po’ e quando ha capito che c’era la possibilità di portarlo a Firenze non se l’è fatta scappare regalandoci così un giocatore tanto efficace quanto elegante e bello da vedere (l’assist per la rete di Vedù contro l’Atalanta farò fatica a scordarmelo per ancora molti anni).
Infine il simbolo della nuova Fiorentina: Federico Bernardeschi. Negli ultimi tempi si sprecano le attenzioni e le parole (anche troppe) sul talento gigliato fatto in casa. Ultimamente va di moda parlare di quello che sarà il suo futuro, con tutta probabilità lontano da Firenze, ma è davvero inutile esserne stupiti in quanto la strada del giovane di Carrara era già contrassegnata da particolari che facevano intuire le potenzialità e le capacità fuori dalla norma. Restava soltanto da vedere se sarebbe riuscito a superare la prima, naturale, vera e inevitabile inflessione dal punto di vista calcistico e psicologico in cui, prima o poi, sarebbe incappato. Ad oggi possiamo dire “missione compiuta” in quanto, dopo qualche mese di incomprensioni è tornato più forte, cosciente di esserlo e maturo di prima.
Ai tre tenori, però, mi sento di aggiungere Maurito Zarate che, in un’annata non semplice per lui, mi ha fatto emozionare almeno un paio di volte. Prima con l’arcobaleno nei minuti di recupero contro il Carpi e poi con la rete, al volo, nell’ultimo turno contro il Napoli. Due reti come opere d’arte per un giocatore che cambierei con pochi altri, capace di entrare e cambiare la partita come se fosse facile come copiare ad un esame universitario a crocette uguale per tutti.
Infine il bambino. Federico Chiesa. Figlio d’arte, buon prospetto e giovane del vivaio. Si è integrato bene e sta crescendo mentalmente e tatticamente ad ogni partita. Magari avrà ragione il mio amico Edoardo che dice che farà la fine di Joshua Brillante, magari avrò ragione io che di brillante gli auspico il futuro o magari non avrà ragione nessuno dei due ma, onestamente, nel mio modo di vedere il calcio la ragione c’entra poco (e poi “l’è dei bischeri”). Meglio il cuore, la passione, l’amore per la maglia, per la città e per i tifosi. E, ripensando alla corsa di Bernardeschi (e Chiesa) sotto la Fiesole dopo la rete del pareggio contro il Napoli, mi parte in automatico un accenno di sorriso.
“Se sono rose fioriranno” diceva qualcuno. Già. "Speriamo non sian cachi” aggiungo io.