"Da grandi poteri derivano grandi responsabilità". Ieri sera, prima di scendere in campo per la sfida decisiva, lui ha immagazzinato tutto nella propria psiche, si è iniettato quella frase dentro senza conoscerla, perché forse è già tutto intrinseco dentro le vene di colui che è uno dei massimi esponenti di quest'arte. Il silenzio, quello strano silenzio che aleggiava in Argentina per una settimana, quel vociare che si è spento ed è diventato assordante, e di paura, dopo i primi quarantacinque secondi dell'altitudine di Quito. Poi, però, è salito il cattedra lui e i parametri di altitudine sono leggermente cambiati, parametri raggiungibili da un solo uomo: Leo Messi.
Le mani sul volto, disperato, dopo la partita di Buenos Aires contro il Perù erano state il simbolo di un'Argentina sull'orlo del baratro, di un Mondiale che si stava allontanando clamorosamente dopo 47 anni dall'ultima volta. Un'altra era, ma la stessa situazione di un popolo che ormai convive con i soliti problemi. Si sono aggrappati a lui i quaranta milioni di argentini, al suo estro e al suo essere leader a modo suo senza grandi giri di parole, tanto alla fine parla il piede sinistro. Già, quel piede che dopo dodici minuti offre lo scambio a Di Maria che rimette in mezzo per il pareggio dopo lo spavento iniziale messo a segno da Ibarra. E' un continuo sbalzo di umori, è paura e speranza e la seconda che scavalca la prima quando al 20' quel mancino tocca ancora una volta la sfera e poi esplode la sua rabbia contro il sette, l'Argentina è avanti.
In quella sassata non c'è solo il gol del sorpasso, non c'è il sessantesimo gol in Nazionale ma tutta la rabbia passata e presente che attendeva solo il momento giusto per detonarsi, per esplodere nella situazione in cui non c'è via di scampo, non c'è possibilità di ritorno. Poi c'è il Sud America, c'è il continuo susseguirsi di notizie, il continuo cambio di risultati e i calcoli fatti in tempo reale. Dopo un'ora di lotta vera in campo, la Pulce decide (si perché lui decide) che i calcoli non servono più a nulla: prende palla al limite e va, corre verso la porta ma questa volta non serve il compagno tutto solo (visti i precedenti di giovedì) ma scavalca il portiere con un pallonetto meraviglioso che bacia la rete e si infila. Gli corrono tutti dietro, lo sovrastano, vogliono toccare l'Argentina in carne ed ossa e il suo capitano.
E lui è li che si lascia sovrastare perché prendere per mano la sua Nazione non è mai stato un peso, ma un onore che pochi riescono a non capire fermandosi solo al tabellino. La verità è che Messi trasforma l'Argentina e non è una bestemmia affermare che Messi è l'Argentina perché senza di lui la squadra di Sampaoli ha collezionato 7 punti in otto partite, con lui ventuno in dieci. Se avesse giocato almeno due partite, di quelle che ha saltato, la Selection avrebbe ottenuto il pass per il Mondiale molto prima e senza toccare il baratro con l'animo e la paura di chi ha campeggiato la propria casa con le foto spirituali del numero 10. Si sono affidati a lui in tutto e per tutto, gli hanno lasciato corpo e anima pur di volare in Russia l'anno prossimo.
E ci andranno, il pass è stato staccato alla faccia di chi auspicava un biscotto tra brasiliani e cileni, con quest'ultimi che chiudono al sesto posto. Inoltre, con la tripletta di ieri, Messi arricchisce il suo curriculum con un nuovo record, ossia quello di principale goleador nella storia delle qualificazioni sudamericane (insieme a Suarez) a quota 21 centri. Poi la festa negli spogliatoi, e la sua intervista in cui ringrazia tutti, i compagni e il più giovane e il più anziano argentino che abbiano visto la partita. Tutti, invece, ringraziano lui per aver evitato l'inferno, per aver trascinato la sua Nazionale al Mondiale perché si sa: "Da grandi poteri derivano grandi responsabilità". L'Argentina ai piedi di Leo Messi.