La maglia numero 7 a Liverpool ha qualcosa di straordinariamente poetico in sé. Kevin Keegan prima, Kenny Dalglish poi, fino ad arrivare a Steve McManaman. Giocatori, emblemi e pezzi di storia dei Reds. Da Smicer in poi, passando per Kewell e Robbie Keane, l'epopea della numero 7 pareva dover perdere quel fascino, quella magia che riempiva gli occhi di chi dalle gradinate della Kop ammirava quel numero volteggiare, dribblare, segnare gol memorabili che sarebbero rimasti negli annali del calcio tradizionale. Con Gerrard e il suo numero 8 il salto pareva alquanto breve. Il capitano, l'eroe di mille battaglie, il condottiero che guidava i suoi uomini nell'incredibile rimonta di Istanbul. Eppure con nostalgia qualcuno pensava sempre e solo al 7. Si cantava di imprese, del re, di chiunque abbia indossato quel "cimelio" con onore e senso di appartenenza. Chissà, pensavano in molti, se un giorno arriverà qualcuno che saprà sopportare il peso di quell'eredità e infervorare ancora una volta i cuori della Kop.

Volteggiando, dribblando e segnando gol memorabili per riportare in alto, tra i grandi d'europa e del mondo il Liverpool Football Club. Succese un giorno di gennaio del 2011 che per caso, dall'Olanda, arrivò un ragazzotto uruguayano. Arrivò quando neanche a parlarne in panchina i Reds avevano chi il numero 7 lo aveva cucito addosso. Arrivò nel Mersey come dicevamo, questo giovane uomo, con la faccia da cartone animato. Si chiamava Luis Suarez. Approdò ad Anfield per la bellezza di 23 milioni di euro, non noccioline. Arrivò con un bagaglio realizzativo da far girare la testa. 111 reti in 159 partite con l'Ajax. Qualcuno pensò, mostruoso. Eppure, un ombra pareva aleggiare su di lui. Il Telegraaf gli affibbiò il titolo poco onorevole di "Cannibale dell'Ajax", per lo spiacevole episodio in cui Suarez colpì Bakkal del Psv, mordendolo. Scapperebbe una risata, un morso durante una partita di calcio? Pazzesco. Ma cosa mi combini mai tuonerebbero in molti. L'incidente gli costò ben sette giornate di squalifica e la necessità di lasciare il paese che lo aveva ospitato e nel quale aveva messo in luce tutte le sue potenzialità.

Arrivò ad Anfield e per caso, ignaro della sua scelta, decise di indossare la maglia numero 7. Un folle sussurò qualcuno, ambizioso gridò qualcun'altro. L'impatto non fu dei più malvagi. Giocò 13 partite e segnò quattro reti, una all'esordio. Bel biglietto da visito non esitò a pronunciare qualche addetto ai lavori. Troppo poco per pronunciarsi obiettarono altri. Nell'estate del 2011 però, Suarez riuscì con la sua nazionale a vincere una storica Coppa America, conquistando a pieno merito il titolo di miglior giocatore del torneo. Dalle parti del Mersey intanto, qualcuno era impaziente di capire cosa sarebbe riuscito a dare al Liverpool nell'arco di un'intera stagione. Dalglish non aveva dubbi... Quella del 2011/2012 però, fu presumibilmente la stagione più abulica della squadra. Ottavi in campionato. Neanche la vittoria in Coppa di Lega riuscì a lenire il dolore dei tifosi nel vedere la propria squadra cosi "normale", cosi simile alle altre. Suarez segnò 17 gol in 39 presenze, 11 in 31 match di campionato.

Non male, si pensò, ma la sregolatezza di un campione non può mai essere controllata. In quell'anno "El Pistolero" venne coinvolto in un altro fatto grave. Nella partita di Premier con il Manchester United, il numero 7 rivolse parole poche accorte a Patrice Evra. Poche accorte perchè il fatto sfociò in un'accusa da parte della Football Association per abusi razziali. Una mannaia si abbattè su di lui e su tutto il Liverpool che però, non fece mai mancare il suo appoggio al suo numero 7. Già, quasi fosse un obbligo morale, un sentimento di necessità verso la maglia che lui indossava. Le cose non stanno ovviamente cosi, eppure Dalglish in prima fila si espresse a più riprese difendendo l'uruguayano. Fatto sta che la strenua difesa del club non evitò la squalifica di otto lunghissime giornate e una multa salata al giocatore. La numero 7 soffriva. Suarez era davvero l'uomo giusto per onorarla fino in fondo?.

A fine stagione il Liverpool decise di cambiare guida tecnica, via Dalglish, al suo posto Brendan Rodgers. C'era da ripartire, da ricostruire una squadra e rinsaldare i valori che hanno sempre rappresentato i colori del club. Il 7 agosto del 2012 Suarez pose la firma sul nuovo contratto che lo avrebbe legato ai Reds nel lungo periodo. Quella del 2012/2013 doveva essere la stagione del rilancio personale dopo gli spiacevoli fatti dell'anno precedente. La maglia richiedeva uno sforzo maggiore per tornare a brillare, non solo dal punto di vista sportivo. In campo Suarez portò a termine, o almeno fin quando la sua sregolatezza glielo permise, un campionato da stella indiscussa. 44 presenze e la bellezza di 30 gol, 23 addirittura in campionato, più del doppio della stagione precedente. Tutto sembrava andar bene.

Il Liverpool dopo Natale cominciò ad ingranare la marcia, Anfield a tornare una fortezza inespugnabile. Ad Aprile però tornò alla ribalta il "Cannibale". Nessuna scusa. Il numero 7 aveva commesso un gravissimo errore. Morse Ivanovic in uno scontro di gioco non visto dalla terna arbitrale, ma che fu facilmente intercettato, con immagini e video che fecero il giro del mondo, scatenando le ilarità anche del "nemico" Evra. La sanzione fu memorabile. Dieci giornate di squalifica e la sensazione che la maledizione del 7 non fosse robetta da nulla. Atteggiamento deplorevole tuonò la FA. Cattivo esempio per i giovani e mancata professionalità, furono solo alcune delle accuse che gli furono lanciate. Giustamente sarebbe il caso di aggiungere.

Lo scorso maggio Suarez mostrò insofferenza, voglia di lasciare il club e ricominciare, stuzzicato dai rumors che provenivano dalla Spagna. La tifoseria si spaccò. Via subito diceva qualcuno. Altri, i più malinconici forse, avrebbero sostenuto lui e quella maglia numero 7 sempre e comunque. Fu l'amore della tifoseria, forse, il motivo per cui Suarez decise di rimanere. Non lo sapremmo mai. Ci piace pensarla cosi. In ballo adesso c'era molto di più. La numero 7 era stata maltratta ancora una volta. Liverpool non meritava questo. La Kop non meritava questo. La numero 7 non meritava questo. Chissà cosa si dissero tra sè i giocatori quando Suarez tornò ad allenarsi. Cosa disse Rodgers che più di chiunque altro stava cercando di riportare in alto i valori morali del club. L'obiettivo di inzio stagione era la Champions League. Tornare tra le magnifiche sorelle d'europa. Da Suarez si doveva ripartire. Tornò in campo cambiato. Con la forza e la determinazione dei grandi di un tempo, con indosso la maglia numero 7. In trasferta a Sunderland, prima di Premier dopo le dieci giornate, parte titolare e segna una doppietta.

Torna ad Anfield da figliol prodigo e segna ancora. Con il West Bromwich realizza la quarta tripletta con la maglia del Liverpool. Il 4 dicembre ne fa addirittura 4 al povero Norwich. Fa doppietta con il Fulham, segna una punizione magistrale al Goodison Park, abbatte gli Hammers. A White Hart Lane indossa la fascia di capitano. Un onore vederla abbinata alla maglia numero 7. Lui è cambiato, si carica la squadra sulle spalle e ne fa due nel 5-0 al Tottenham. Anche Londra è conquistata. Il 20 dicembre la paura di un suo addio sembra passare con la firma di un nuovo contratto fino al 2018. Abbatte i Dragoni gallesi con altre due perle. Segna con l'Hull e diventa il primo giocatore a raggiungere i 20 gol in due stagioni consecutive dopo Robbie Fowler e il primo a raggiungere le venti reti in appena 15 partite. Con lo Stoke ne fa alti due, espugnando anche il Britannia. Diventano 22 in 16 presenze. L'incubo pare terminato. La Kop ruggisce ad ogni suo tocco di palla, intimorendo, chissà, quel pizzico di naturale sregolatezza che fa parte del suo essere. Anfield lo acclama, in trasferta lo fischiano spaventati da quel binomio che dopo anni è pronto per tornare e conquistare il campo e un giorno anche la Premier. Il numero 7 ha finalmente il suo nuovo eroe.