Il primo atto di questa sfida interminabile tra Borussia Dormund e Bayern Monaco si è concluso con la vittoria dei primi per 4-2 (doppiette per Reus e Robben). Perentoria come un colpo secco di sciabola, come una lama che ha ghigliottinato da subito i nuovi sogni di gloria di un Bayern ora con un'anima più catalana, di un club che avendo vinto tutto in Europa si ripensa e si ridefinisce come squadra alla luce di un nuovo ciclo (sono gli eterni ritorni del calcio) che possa ricollocarlo nella posizione che più gli appartiene: il trono. E non solo di Germania.
Il Re è dunque già nudo? Il Dortmund di Klopp quantomeno ne ha denudato il sembiante. Ha mostrato a tutti che il Bayern è ancora in piena metamorfosi, una trasformazione tra il vecchio e il nuovo non ancora completata (e ci mancherebbe), una crisalide non ancora dischiusa che ambirebbe a divenire farfalla, le cui ali son già tutti pronti lì a voler spezzare. Questa Supercoppa teutonica ha "sorpreso" il Bayern nella flagranza di tale fase intermedia con la squadra, ovvero gli uomini che la compongono colti da un senso d'incertezza che deriva da una condizione orfana di sicurezze ontologiche superiori, tra gli dei fuggiti (Heynckes) e il dio che viene (Guardiola).
È in sostanza un Bayern in fieri quello colpito dal Dortmund. Ferite che se non uccidono sul nascere, guariscono immediatamente e rendono più forti. Non è e non può essere naturalmente una palingenesi dai tempi geologici, poiché Guardiola è stato chiamato dall'Olimpo di Baviera - per l'appunto - per far rimanere il Bayern là dove già è, ovvero sul tetto d'Europa, ma il passaggio tra le due "epoche" è ancora lungo. E non ci si possono permettere sospensioni temporali, perché l'arena chiama quotidianamente a combattere. E di sicuro l'arena-teatro dove è andato in scena questo primo round per il Bayern rappresentava la fossa dei leoni del Signal Iduna Park, il sempiterno "Stadio di Westfalia". Scenario avverso e parete invalicabile (il gelbe wand, la muraglia gialla dei tifosi del Dortmund) oltre la quale far volare i propri sogni di rinascita per un esito quasi scontato.
La "piccola rivoluzione" messa in atto da Guardiola in fase di precampionato, non ha funzionato. O per meglio dire è stata troppo piccola per un Borussia Dortmund addestrato alle grandi imprese. Nel clima torrido di un finale di luglio incandescente dominato anche nelle lande germaniche da un demone infernale come Caronte, la condizione fisico-atletica non ha consentito di esprimere quel gioco totale e totalizzante cui le due compagini ci hanno abituato. Gambe ancora in pieno rodaggio e ossigenazione faticosa inibiscono un piano di corsa costante. Pressing dunque sincopato e effetto fisarmonica all'interno delle due compagini.
Il Borussia Dortmund vince sostanzialmente perché è una realtà non in divenire, ma già compiuta. Sono da registrare solo impercettibili movimenti di assestamento con la sostituzione di Götze con Mkhitaryan e l'innesto di un pur validissimo elemento come Aubameyang nel reparto offensivo. Poca cosa nell'insieme. Struttura, meccanismi, filosofia di base rimangono invariati e Klopp permane nella sua consapevolezza/convinzione di aver a disposizione una delle macchine belliche più micidiali a livello europeo.
Il Bayern Monaco perde poiché in questa fase di transizione non ha il coraggio di osare fino in fondo, e la rivoluzione si perde nella sua essenza di cambiamento radicale rimanendo a metà strada tra il nuovo e il niente, con un 4-3-3 che attua sì movimenti orizzontali di scambio e rotazione all'interno delle linee avanzate (centrocampo e attacco, come nel recente match con il Barcellona nella Uli Hoeness Cup) ma non fa corrispondere quei dinamismi verticali (gli inserimenti frequenti dei centrocampisti, e dei centrali difensivi a turno) che creavano la superiorità numerica decisiva durante la fase offensiva. Poi è chiaro che questo Borussia Dortmund non è confrontabile con quel Barcellona, ma è un Borussia Dortmund che semplicemente non ha faticato a chiudere le linee di passaggio a centrocampo e creare barriere sulle sovrapposizioni di fascia con Blaszczykowski e Gündogan. Rispedire Lahm nella linea difensiva (forse per assecondarne i capricci) per poi elaborare la non troppo intelligente strategia di lasciargli spazio sulla corsia di destra grazie ai movimenti centripeti di Müller, significa regredire al vecchio. E allora, una volta tornati a disposizione al 100% della forma Schweinsteiger, Javi Martinez, Luiz Gustavo e Götze, perché non ritornare alla sicurezza del vecchio blindato modulo heynckesiano con i due mediani frangiflutti davanti alla difesa, senza elaborazione alcuna dei famosi movimenti in verticale dei centrocampisti che si abbassano e si alzano a seconda delle fasi di gioco? E allora perché sacrificare la classe di Thiago Alcantara collocandolo davanti alla difesa come demiurgo insufflatore del principio di manovra e cardine di riferimento per i movimenti di retroguardia difensiva? E allora perché aver scelto Guardiola?
No, evidentemente la questione non è l'alibi delle figure di grande personalità come Javi Martinez e Luiz Gustavo assenti a centrocampo e la mancanza di un turbine offensivo come Ribéry nello schieramento base, perché il Bayern sovrano non può affidarsi alle contingenze. Il vero problema è che le rivoluzioni, per piccole che siano, necessitano di follia. Il Bayern ha perso e sarà destinato a perdere contro il Borussia e contro chiunque abbia saputo prendergli le contromisure, se non sarà più in grado di creare calcio, se non avrà la sfrontatezza di destabilizzare la perfezione delle forme compiute. Bisogna avere fino in fondo il coraggio del cambiamento. Ecco perché Guardiola, e nessun altro.