"Mamba out" (Parte seconda). Dalla scorsa notte, Kobe Bryant è definitivamente e ufficialmente parte della gloriosa storia dei Los Angeles Lakers, franchigia della sua vita, che lo ha omaggiato durante l'intervello della sfida casalinga contro i Golden State Warriors ritirando le due maglie indossate in carriera. Il numero otto e il numero ventiquattro, quasi a individuare una netta cesura tra il Kobe degli esordi e quello della maturità, tra il Kobe del Threepeat con Shaq e quello dei due anelli con i vari Odom e Gasol.
Otto o ventiquattro, non è mai cambiata la Mamba Mentality, una cultura personale non solo vincente, ma fatta di lavoro, concentrazione e ossessione. Ossessione per Michael Jordan, emulato fino allo sfinimento, per i titoli da vincere, per i canestri da segnare, per una vita dedicata al basket e ai Los Angeles Lakers, durata finchè il suo fisico gli ha dato la possibilità di continuare. Il Kobe dell'ultima notte è stato presentato da Magic Johnson, presidente delle operazioni cestistiche, altra gigantesca icona gialloviola, accompagnato poi da Jeanie Buss, reggente attuale di Lakerslandia, e dal general manager Rob Pelinka (per anni a fianco di Bryant nelle vesti di agente). A bordo campo, altre leggende come Jerry West (a cui va il merito di aver portato Kobe a Los Angeles, dopo "il miglior workout mai visto nella mia vita", secondo il racconto di Magic) e Shaquille O'Neal, con cui negli ultimi anni i rapporti sono tornati - quantomeno pubblicamente - idilliaci. Primo giocatore a veder ritirate due maglie dalla stessa franchigia, Bryant ha saputo reggere l'emozione davanti ai suoi tifosi, concedendosi alla retorica solo alla fine del suo discorso, quando ha spiegato di essere stato "solo un bambino che aveva un sogno, e che lo ha realizzato. Mamba Out". Prima, invece, Kobe ha battuto sul tasto della voglia di migliorare, di non smettere mai di allenarsi, a qualunque età e a qualunque ora del giorno e della notte, nella speranza che anche gli attuali componenti dei Lakers inizino a rispecchiarsi in una mentalità che per lui deriva dalla maglia gialloviola, e che può condurre anche i più giovani, Ingram, Ball e compagnia, a ottenere grandi soddisfazioni.
Ha ringraziato la città, i tifosi, quello Staples Center per anni tempio pagano tutto per lui, spiegando che l'affetto della gente lo ha sempre spinto a lavorare di più, anche dopo gli infortuni e le difficoltà. Come sottolineato da Magic Johnson, non ci sarà mai più un altro Kobe Bryant. Espressione spesso abusata, ma stavolta corretta: impossibile riprodurre una simile macchina di pallacanestro in una mente tanto ossessionata dall'etica del lavoro e dalla vittoria. Irripetibili anche i gesti tecnici, i fondamentali di un giocatore che pure non ha mai frequentato il college, ma che ha dominato la scena NBA praticamente dal primo giorno in cui vi è entrato dalla porta principale. Quella di Hollywood, che ha contribuito a far di lui una star, ricevendo in cambio una dedizione maniacale alla palla a spicchi, una ferocia clamorosa, abbinate a un talento con pochi eguali. Ha vissuto l'epoca dei Tim Duncan, dei Kevin Garnett, dei Dirk Nowitzki, degli Steve Nash e degli Shaquille O'Neal, tanto per citare qualche nome di altri futuri hall of famers, ma ha segnato un'epoca come nessuno. L'NBA del post Michael Jordan è stata Kobe Bryant, forse più di quanto Kobe Bryant sia stato i Lakers. E non è cosa da poco. All'appuntamento con la cerimonia di ritiro delle maglie era assente Phil Jackson, storico coach di Kobe, anche lui uomo chiave in due spezzoni diversi della carriera del ragazzo cresciuto in Italia. Rapporto conflittuale con il Maestro Zen, alla fine eletto mentore del numero ventiquattro che fu numero otto. Incubo di ventinove franchigie NBA, da oggi Bryant chiude definitivamente la sua esperienza come giocatore (con l'appendice della Hall of Fame tra tre anni) e si appresta a vivere un nuovo capitolo della sua carriera, forse da dirigente, sicuramente da leggenda, non solo del mondo gialloviola.