Dinastia. Questa è, o sarà, la parola più rappresentativa per descrivere questo periodo storico della NBA e dei Golden State Warriors. Il nuovo millenio ha visto diverse dynasties, a partire dai Lakers di Kobe Bryant e Shaquille O’Neal fino a Boston e Miami con i rispettivi Big Three, senza dimenticare i quindici anni di Tim Duncan, Manu Ginobili, Tony Parker e Gregg Popovich con gli Spurs.
Ora, invece, il basket a stelle e strisce sembra diviso in due blocchi, in una sorta di guerra fredda che fredda non è: da un lato, ad est, i Cleveland Cavaliers del re LeBron James, dall’altro, appunto, i Golden State Warriors. Per ora, nelle ultime tre stagioni, il record delle finali dice 2-1 per i ragazzi di Steve Kerr, vittime del più grande upset della storia delle Finals nel 2016, quando i Cavs riuscirono a ribaltare la serie dal 3-1. Dopo il 2015 ed il 2017, però, i Warriors sembrano essere favoriti per tutte le prossime due o tre stagioni, costringendo le altre franchigie a doversi scervellare per provare a costruire una squadra all’altezza della competizione contro gli alieni della Baia. Eppure, il regolamento NBA mira (e riesce) a prevenire la formazione di super-squadre con stipendi esorbitanti destinate a dominare per lunghi periodi, con stratagemmi come il salary cap, la tassa di lusso ed il meccanismo del Draft. Eppure, quello di Golden State è a tutti gli effetti un Gronchi Rosa: una squadra che, una volta messa insieme, sembrava tutto tranne che un’armata invincibile. Possiamo ripercorrere tutti i passi assieme a Kevin Durant, ultimo ma importantissimo tassello aggiunto al puzzle, che ha parlato proprio della costruzione del suo team, dopo aver incassato il premio di MVP delle scorse finali.
“Prima di tutto, se tutti avessero voluto Steph [Curry], sarebbe stato la scelta numero uno. Tante persone sono passate oltre, hanno dubitato di lui, dicendo che non sarebbe stato così forte”. Tutto tremendamente vero. Torniamo con la mente al Draft 2009, annata capace di fornire all’Associazione ben sette futuri all-star. La prima scelta assoluta va ai Clippers, che si assicurano Blake Griffin, mentre OKC, con la numero tre, si accaparra James Harden. E fin qui, direte voi, tanto di cappello. Ecco, si, arriviamo alla numero sette: i Golden State Warriors, con quello allora ritenuto un azzardo, scelgono un play gracilino, con buone doti da tiratore ma con delle caviglie deboli ed un fisico considerato non adatto ai ritmi NBA. Prima di lui, rispettivamente, vengono scelti un centro (Hasheem Thabeet) e tre point-guards come Tyreke Evans, Ricky Rubio e Jonny Flynn. Poi, Steph Curry da Davidson, destinato, tra le altre cose, a diventare due volte MVP, quattro volte all-star, nonché recordman di triple segnate in una stagione (402) ed in una singola partita (13). Ora, dopo aver guadagnato una media di tre milioni annui nei primi quattro anni e di undici negli ultimi quattro, è pronto a mettere la firma su un massimo salariale, verosimilmente per altri quattro anni.
“Klay Thompson, era considerato un buon tiratore, ma nulla di più, quand’è arrivato nella lega”. Anche qui Durant non sbaglia: 2011, il Draft degli insospettabili (quello, per intenderci, in cui Derrick Williams viene scelto alla seconda assoluta e Leonard, Butler e Thomas rispettivamente come 15, 30 e 60) vede andare via per undicesimo un buon tiratore, si, ma che in quattro anni diventerà un vero e proprio cecchino, il migliore in uscita dai blocchi, nonché tra i difensori più tenaci della lega. Per lui, la prossima stagione, arriveranno circa diciannove milioni di dollari di stipendio.
"Draymond [Green], nessuno lo voleva. Un power forward di appena due metri, dicevano che non avrebbe potuto giocare in NBA”. Anche qui, follie da draft. Stavolta si parla del 2012, quando il 23 dei Warriors fu scelto alla numero 35: prima di lui, ben dodici pari-ruolo che, esclusa la prima scelta assoluta Anthony Davis, non hanno esattamente lasciato un segno indelebile nella Lega. Per Green, invece, due titoli, due chiamate all’All-Star Game, una tripla doppia nella decisiva gara-6 del 2015 e la sensazione che sia sempre e comunque l’arma in più, nelle due metà campo, a disposizione di Kerr.
“Shaun Livingston, invece, ha avuto un folle infortunio al ginocchio. Nessuno pensava che sarebbe tornato Shaun Livingston”. Stavolta, purtroppo, le sviste al draft non c’entrano, ma c’entra tanta sfortuna: 26 febbraio 2007, il ventiduenne Livingston è in forza ai Los Angeles Clippers, impegnati in casa contro i Bobcats. Dopo meno di quattro minuti, Shaun ruba palla, si lancia in campo aperto e conclude col layup. Cadendo, il suo ginocchio sinistro ha una torsione assolutamente innaturale, che lo fa accasciare in preda al dolore. Il primo bollettino medico è da film horror: rottura del legamento crociato anteriore e posteriore, del collaterale mediale, del menisco e lussazione della rotula. Sostanzialmente il ginocchio è polverizzato, si parla addirittura di amputazione della gamba. Eppure, oltre un anno dopo uno degli infortuni più atroci della storia dello sport, Livingston torna a giocare, ma deve aspettare ben sei anni, fatti di trade, panchina, tagli ovunque, trasferimenti da una parte all’altra dell’america per cercare fiducia, e persino esperienze in D-League, per ottenere la prima occasione: un triennale da 14 milioni di euro che lo porterà a vincere due finali da protagonista in uscita dalla panchina.
Questi sono solo quattro esempi, a cui si aggiunge Iguodala, scambiato prima dai 76ers e poi dai Nuggets prima di approdare in California, nonché Steve Kerr, allenatore alla prima esperienza in assoluto su una panchina, capace di creare un mix letteralmente letale di circolazione e giochi a metà campo, nonché di sdoganare (con Green da centro) la forma più estrema – e redditizia – di small ball, col campo aperto all’inverosimile per il tiro da tre e l’area sgombra per le penetrazioni.
“Superteam? No, siamo solo dei ragazzi che lavorano molto bene assieme. Ed il coach ci mette nella posizione giusta per massimizzare i nostri punti di forza”. Così come LeBron James subito dopo gara-5, anche Kevin Durant rigetta l’appellativo di super-squadra, e si fa fatica a dargli torto. Certo, ora come ora i primi sette giocatori a disposizione di Kerr sarebbero assolutamente decisivi e centrali in qualsiasi altro progetto della lega, ma ad inizio 2014, quando nacquero i Warriors che conosciamo ora, nessuno avrebbe scommesso più di un centesimo su una cenerentola formata da promesse mancate e mezzi giocatori. Dopo tre stagioni, il record cumulativo parla da sé: 207-39. “Ci miglioriamo a vicenda e non ci importa di chi sia il merito. Davvero, è tutto incentrato sul divertirci giocando, e sul capire come possiamo vincere tutti assieme. Molti di questi ragazzi hanno ribaltato i pronostici che li riguardavano, riuscendo a giocare una pallacanestro grandiosa pur mettendo la squadra in primo piano. Queste sono cose che meritano di essere premiate, e sono state premiate con un titolo”, questa la conclusione delle dichiarazioni di KD35.
Insomma, tanti hanno parlato di una Lega falsata, con una squadra al vertice e nessun’altra capace di contrastarla (in effetti, una post-season da 16 vittorie ed una sola sconfitta parla chiaro…) ma, come ha sottolineato anche Adam Silver, non è Golden State a dover fare un passo indietro, quanto le altre a doverne fare tre avanti. Il front-office della Baia, col sapiente contributo di un mago come Jerry West, non ha infranto nessuna regola e nel 2016/17 portava a referto il settimo monte salari, per intenderci più basso di quelli di Portland e Memphis. Ovviamente la statistica verrà rimaneggiata quando arriverà l’ufficialità del super-contratto di Curry, ma stiamo parlando della stessa Lega in cui i Cavaliers rischiano di pagare 50 milioni di dollari di tassa di lusso per la prossima stagione. Semplicemente, in quel di San Francisco sono riusciti a creare un mix di talento, esperienza e personalità senza eguali, nonché uno staff tecnico tra i migliori in circolazione, un’arena perfetta per giocare a basket ed un ambiente solare che tutti osannano, tanto da attirare anche l’acerrimo nemico Kevin Durant. Ora, sta alle altre 29 forze in campo il compito di trovare il modo di non far sì che si parli dei Warriors per i prossimi tre o quattro anni.