"Non ho nulla da rimproverarmi, ho lasciato tutto ciò che avevo sul campo. Golden State ci ha battuto ancora, trattandoci come uno dei tanti ostacoli che ha superato sulla sua strada". Pensieri e parole di LeBron James, il più forte giocatore di pallacanestro al mondo che, dopo la quinta sconfitta alle NBA Finals contro i Warriors, sembra voler anticipare le critiche di una parte dell'opinione pubblica e mediatica. Eppure il Prescelto è ormai fuori dal mirino della critica, che in larga misura ha smesso di rinfacciargli il suo record negativo nelle serie finali.
Un record aggiornato a 3-5, e che dovrebbe indurre a diversi spunti di riflessione. In almeno un paio di occasioni le squadre di LeBron sono giunte alle Finals senza i favori del pronostico (come accaduto nel 2007 contro i San Antonio Spurs e nel 2015 quando, appena tornato a Cleveland, dovette guidare i Cavs praticamente da solo contro Golden State). In mezzo un altro k.o. contro gli ingiocabili Spurs del 2014, e uno più difficile da accettare, contro Dallas nel 2011. Ma anche tre trionfi, due consecutivi, su Thunder e Spurs, fino alla rimonta da urlo dello scorso anno contro i Warriors. In realtà, il record parla già da sè a favore di LeBron: giungere alle Finals in otto occasioni, con una striscia aperta di sette partecipazioni consecutive, con due squadre diverse, è dimostrazione di forza, dominio, di un segno indelebile lasciato nella storia del gioco. Come correttamente osservato oltreoceano, James ha distrutto i sogni di un'intera generazioni di giocatori della Eastern Conference, rappresentando da solo una dinastia. Una dinastia che giunge in finale con regolarità, e che può vincere e perdere, come d'altronde naturale quando si compete per il titolo un anno sì e l'altro pure. Una tripla doppia ambulante, se si vuole continuare a parlare di numeri, come quella fatta registrare nell'ultima serie contro i Golden State Warriors, nonostante il 4-1 subito. E la grandezza di James sta proprio nella sua irripetibile capacità di essere un all around player, un giocatore in grado da solo di trasformare una normale squadra NBA in una contender da compagnia per l'anello. Non ci fossero stati sulla sua strada i clamorosi Dubs di questo triennio, il Prescelto avrebbe con ogni probabilità due titoli in tasca in più, posto che fare la conta dei Larry O'Brien Trophy sia davvero la maniera corretta di affrontare il problema.
Inutile neanche stare a ricordare quanti grandissimi giocatori non siano mai riusciti ad arrivare alla terra promessa (da John Stockton e Karl Malone a Charles Barkley e Reggie Miller, passando per Steve Nash in anni più recenti). La grandezza non si misura (solo) in base al numero di titoli vinti, ma piuttosto in base al segno lasciato sull'evoluzione del gioco. Ormai in campo da quasi quindici anni sul palcoscenico più luminoso, LeBron ha mostrato in più occasioni l'intelligenza dei fuoriclasse, capace di modificare la sua pallacanestro in relazione alle esigenze della squadra e del nuovo contesto tecnico vissuto dall'NBA. Dopo aver iniziato come giocatore estremamente fisico, gran realizzatore, ma tiratore sotto la media (come dimenticare la serie contro gli Spurs del 2007, che lo attendevano in area per sfidarlo al tiro da fuori), il numero 23 ha accettato, prima con riluttanza, poi con entusiasmo, di diventare a tutti gli effetti una point forward, un playmaker di due metri e dieci in grado di giocare indifferentemente spalle e fronte a canestro. E' questa la dimensione totale di LeBron, che oggi può segnare di forza al ferro (ne sanno qualcosa i Celtics, ma anche gli stessi Warriors), tirare con percentuali sopra il 40% dall'arco (anche dal palleggio, senza ritmo), muoversi in post come ormai solo in pochi sanno fare, riaprire per i tiratori da situazioni tecniche diverse, ribaltare il campo con palloni girati ai quattro angoli con precisione chirurgica. Tutto questo, e molto altro (il controllo psicologico sulla partita, la leadership sui compagni di squadra), è LeBron James, che continua ad estendere la sua leggenda lasciando parlare il campo. Anche i numeri sono dalla sua parte (ha recentemente superato un certo Michael Jordan per punti segnati nei playoffs), e non sarà certo una sconfitta in più o in meno contro un grandissimo avversario ad intaccare quella che negli States chiamano legacy, e che James ha costruito stagione dopo stagione, senza sembrar risentire dell'usura legata a un quindicennio vissuto sulla cresta dell'onda.