A pensarci bene, una squadra che non può perdere è un ossimoro evidente. Perché se allo sport togli il brivido dell'incertezza, anche minima, sul risultato di una competizione, lo trasformi in una baraconnata d'avanspettacolo: e per quello, parlando di basket, bastano gli Harlem Globetrotters e i Washington Generals.
Eppure, come tutte le cose che non dovrebbero accadere e che, invece, accadono, il mondo ha conosciuto davvero una squadra che non poteva realmente perdere. E, sempre parlando di basket, facciamo riferimento al Dream Team che passeggiò (partecipare è solo per i più strenui seguaci di De Coubertin) alle Olimpiadi di Barcellona '92, assicurando agli Stati Uniti la più prevedibile delle medaglie d'oro.
In realtà si potrebbe fare anche a meno di specificare anno e luogo: l'unico, vero, Dream Team era quello lì. Gli altri sarebbero stati soltanto pallidi tentativi d'imitazione riusciti più o meno bene (il 'Redeem Team' di Pechino 2008 nel primo caso, il 'Nightmare Team' di Atene 2004 nel secondo), fino al 2012. Quando, cioè, per la prima volta il paragone non risultò così improvvido:
Come detto, una squadra che non può perdere è la negazione stessa dello sport. Quindi parlare dei risultati di un gruppo di 11 Hall of Famer+1 (il povero Christian Laettner) risulta ovvio, scontato, noioso. Come sei partite del torneo di qualificazione delle Americhe vinte con almeno 30 punti di vantaggio sugli avversari. Come le successive sette 'amichevoli' sulla non trafficatissima strada verso la medaglia più preziosa, vinte con 44 punti di scarto di media, senza che Chuck Daly chiamasse anche un solo timeout e con gli avversari che trovavano molto più interessante mettersi nella posizione migliore per farsi fotografare con Michael Jordan e Magic Johnson, piuttosto che approntare una strategia difensiva credibile (ammesso che contro una squadra che poteva contare sugli ultimi 9 MVP della regular season Nba si potesse realmente fare qualcosa).
Tuttavia, anche in un contesto del genere, la narrativa è riuscita a ritagliarsi il suo spazio. E, guarda caso (o forse no), relativamente agli unici due episodi degni dell'agonismo che un'Olimpiade comporterebbe.
Quando si vede una squadra fortissima che fa in campo quello per cui è stata progettata fuori (nel caso di specie, dominare senza ritagno), bisogna sempre pensare al background. Perché se è vero che chiunque potrebbe fare l'allenatore di un quintetto con Magic o Stockton in cabina di regia, Jordan e Pippen in guardia e sul perimetro, e due tra Malone, Ewing e Robinson sotto i tabelloni (tacendo dei Barkley, dei Bird, dei Mullin, dei Drexler) è altrettanto vero che, prima, devi trovare il modo di far coestistere tutti questi ego. Perché dei fenomeni assoluti che per 10 mesi l'anno giocano e si allenano solo e unicamente per farsi le scarpe l'un l'altro, non possono far finta di niente anche solo per 30-40 giorni. Con buona pace del patriottismo stars and stripes. Devi trovare IL 'maschio alfa' tra i maschi alfa e Daly sa che l'unico modo è metterli l'uno contro l'altro. L'ultimo che resta in piedi prende tutto.
Il redde rationem ha una data: 22 luglio, Stadio Louis II di Montecarlo, sede del 'ritiro' (mille e una virgolette) di Team Usa. Fino a quel momento le schermaglie tra quegli 11 animali da competizione erano state soltanto verbali. Generalmente funzionava così: Barkley attaccava a parlare, Magic non si tirava indietro, Jordan irrompeva ricordando gli anelli che il primo non aveva mai vinto e che il secondo non avrebbe vinto più; con Larry Bird che evitava attentamente di mettersi in mezzo, conscio del fatto che la sua schiena avrebbe ben presto preteso il tributo supremo. Daly, che già aveva dovuto rinunciare a Isiah Thomas (colpevole di essere il primo nome sulla lista nera di MJ per svariati motivi), ne fa una questione territoriale: 5vs5, bianchi contro blu, Est contro Ovest. E, quindi, Bird, Malone, Ewing, Pippen e Jordan da una parte, Laettner, Barkley, Robinson, Mullin e Magic dall'altra. Grande assente Drexler che, memore del trattamento riservatogli da Jordan alle ultime Finals Nba, benedice l'infortunio alla caviglia che gli impedisce di partecipare alle tenzone.
Perché quella partita (che Jack McCallum nel suo Dream Team - il miglior libro che possiate mai leggere sull'argomento - definisce come "la più fantastica del mondo che nessuno vide mai"), complice un paio di errori verbali di Magic e Barkley, si trasforma nello show personale del 23, all'apice della sua già ragguardevole crudeltà sportiva:
E se il migliore di sempre gioca, per sua stessa ammissione, la "partita della sua vita" non c'è scampo. Con buona pace di un Magic furioso e protagonista di una rosicata memorabile dopo essere stato preso in giro (eufemismo) sulle note di "everyone wants to be like Mike". Adesso si fa come dice Michael.
E come dice Scottie Pippen, nel secondo episodio degno di nota di quell'estate. Siamo alla vigilia della seconda partita del torneo Olimpico. L'Angola è già stato spazzato via senza troppi problemi, nonostante Barkley avesse cercato di movimentare il tutto rifilando una gomitata al malcapitato avversario di turno (con l'immancabile coda polemica sull'arroganza dell'american way of life). Ma, adesso, c'è la Croazia. Di Drazen Petrovic e, soprattutto di Toni Kukoc. Che ancora non lo sa ma sta per vivere il peggior pomeriggio della sua vita. Con sentiti ringraziamenti a Jerry Krause. Ma come, il general manager dei Bulls che aveva fatto carte false per averlo, dopo che lo stesso era stato selezionato al secondo giro del Draft del 1990?
Si. Perché proprio Krause si era reso protagonista di una mancanza di rispetto imperdonabile. Non aveva, cioè, dato a Pippen i soldi che lo stesso sentiva di meritare in sede di rinnovo contrattuale. Il motivo? Lasciare il più ampio margine possibile nel salary cap per poter firmare il giovane croato. Un'onta che Scottie non avrebbe mai dimenticato. E che tornò buona come motivazione non appena lui e MJ scoprirono che si sarebbero trovati di fronte proprio Kukoc nella seconda partita del girone di qualificazione.
"Quello si è preso i miei soldi. E nessuno tocca i miei soldi!", sibila furioso Pippen. Trovando un'adeguata spalla in Jordan che, sul pullman che li porta alla partita, dice a Magic:
"M.J. voglio essere sopra di venti alla fine del primo tempo..."
"Perfetto M.J." replica l'altro sardonico, "lo faremo per te e per Scottie".
Ora, come può finire quando due dei migliori difensori di ogni epoca si avventano come "un branco di squali su una preda sanguinante" (cit. Karl Malone)? Male. Per lui: 2/11 dal campo per la miseria di 4 punti e tanti saluti a Krause.
Valgano come ulteriore testimonianza le parole di Chris Mullin: "Scottie e Michael si sono avventati su Toni con una furia tale da perdere quasi di vista la partita".
Questa era la vera faccia del Dream Team. E questo era il motivo per il quale non avrebbe potuto mai perdere. Non i grandi nomi, l'ampio margine sugli avversari, le giocate mai più replicate prima e dopo; ma la feroce motivazione di (ri)stabilire l'ordine all'esterno dopo che lo stesso era stato (ri)stabilito all'interno con "la partita più fantastica del mondo che nessuno vide mai".
Sapete? Forse ho cambiato idea. Una volta ogni tanto una squadra invincibile fa bene allo sport. A patto, però, che sia come questa qui. E siccome qualcosa del genere non si vedrà mai più, godersi e ricordare tutto ciò che è stato il Dream Team, dentro e fuori dal campo, è un piacere immenso. E sempre lo sarà.