A neanche ventiquattro ore di distanza da gara uno delle Nba Finals 2016, in molti si sono ritrovati a suonare il de profundis per i Cleveland Cavaliers (dopo peraltro averli dati per favoriti contro i Golden State Warriors). E' la schizofrenia sportiva che vale al di qua e al di là dell'oceano, e che sembra impossessarsi di troppi tra analisti e addetti ai lavori quando si parla delle squadre di LeBron James. E' bastata una sconfitta nella partita inaugurale della serie finale per riportare alla luce qualche dato relativamente significativo (come l'uno su sei nelle gare uno alle Finals fin qui disputate dal Prescelto) e per sparare a zero su un giocatore incensato fino a pochi giorni per dei playoffs affrontati in maniera maestosa.
Ma dietro il k.o. della Oracle Arena c'è molto di più che qualche palla persa di troppo di LeBron e dei suoi isolamenti stanziali (che comunque sono valsi un numero di assist in doppia cifra). C'è la difficoltà ad adeguarsi subito, dopo due mesi di vittorie in tutta scioltezza, ai ritmi e al livello di una squadra che ha vinto l'Ovest (nella fattispecie i Golden State Warriors, ma il discorso non sarebbe cambiato neanche con gli Oklahoma City Thunder). Ci sono sguardi che non si incrociano dopo gravi incomprensioni difensive, c'è un gruppo dall'enorme talento (Kyrie Irving e Kevin Love assenti lo scorso anno), non ancora sul pezzo per quanto riguarda il gioco nella propria metà campo. In attacco i Cavs hanno fatto quanto ci si attendeva: vero, meno tentativi da tre, ma soprattutto per il lavoro difensivo avversario (e per lo scarso minutaggio concesso a Frye, cecchino semi-infallibile nel death lineup versione Ohio), qualche isolamento di troppo per James, specialmente nel finale di terzo quarto. Niente che non fosse prevedibile: le caratteristiche dei giocatori non si cambiano nè si scoprono agli inizi di giugno, a maggior ragione per una squadra giunta in finale con un record ai playoffs di 12-2. Attaccare nei primi secondi dell'azione potrebbe giovare soprattutto a Kyrie Irving, per certi versi ingabbiato dall'andamento lento dei Cavs, ma a LeBron non è mai piaciuto troppo aumentare il ritmo dei possessi. Dal Prescelto ci si attende ora una partita da quaranta e passa punti, evenienza possibile ma forse non decisiva per lo sviluppo della serie.
Dove Cleveland deve a tutti costi dare più di un giro di vite è in difesa, al netto di quintetti con Love e Thompson da lunghi o con James da numero quattro. Nel terzo quarto di gara uno si è vista per alcuni minuti la miglior versione dei Cavs contro i campioni in carica, puntualmente rovinata da almeno due possessi difensivi inaccettabili a questo livello. Preoccupati di mandare più giocatori su Steph Curry, gli uomini di Lue si sono persi in troppe occasioni il tagliante di turno, da Livingston a Iguodala passando per Barnes, per non parlare dei disastri combinati in transizione difensiva (quante schiacciate o layup per Ezeli, Bogut e gli esterni). Errori che derivano sia da un eccessiva attenzione prestata alle sole ricezioni degli Splash Brothers, sia da disattenzioni individuali, che da singole finiscono per diventare di squadra. J.R. Smith, Iman Shumpert, Kyrie Irving, Kevin Love, tutti giocatori di talento non ancora testati ad altissimi livelli quando si tratta di difendere con continuità, per 48 minuti sul campo più ostico dell'intera lega. Eppure i Cavs hanno fatto un buon lavoro sul tiro da tre avversario (meglio di quanto si potesse immaginare), ma non quanto basta per salire di livello dal basket bailado dell'Est a quello rock dell'Ovest. Fino alla palla due della prossima sfida ci sono ancora molte ore di distanza, esattamente quelle che serviranno a LeBron James per caricare i suoi compagni di squadra, che per il momento sanno che ogni responsabilità per un'eventuale sconfitta sarà addebitata al Re. Ma anche che non vincere con LBJ in squadra potrebbe essere un'occasione che in carriera non ricapita più.