Si può discutere un giocatore di 23 anni che, nell'ultima stagione (conclusa anzitempo per i problemi fisici a spalla e ginocchia, con tanto di operzioni che si sono rese necessarie in prospettiva Rio 2016), ha viaggiato a 24.3 punti, 10.3 rimbalzi, 1.9 assist, 2 stoppate e 1.3 recuperi di media a partita? Per di più poco dopo aver riscritto la storia con un 50+20 che non si vedeva dai tempi di Shaquille O'Neal e Chris Webber?

Certo che si può. Soprattutto se in estate hai firmato un'estensione contrattuale da 145 milioni di dollari per i prossimi 6 anni e la tua squadra è passata da un primo turno di PO (4-0 contro i Warriors campioni di tutto e con il discusso che ha scritto 31.5 e 11.8 di media) all'attuale 26-43.

Chiariamo subito una cosa. Anthony Davis è il futuro. Dei New Orleans Pelicans e, forse, dell'intera lega. Ha qualità incredibili e indiscutibili, è il prototipo del lungo 2.0, ha già dimostrato d avere l'etica del lavoro giusta e, se continua di questo passo, ci sono discrete probabilità di vederlo diventare l'arma offensiva totale nel giro di 4/5 anni (tanto per darvi un'idea: nella scorsa off-season ha lavorato tantissimo sul suo tiro da tre, passando dall'8.3 % del 2015 all'attuale 32.4%). Tuttavia non è una questione di cifre. O, meglio, non solo.

Perché se la crescita esponenziale del proprio rendimento personale non riesce ad avere il giusto impatto su quello collettivo (al netto di un PIE di 16.5), allora c'è qualcosa che non va. Partendo, e non potrebbe essere altrimenti, da un roster non di primissimo piano: i primi ricambi di AD23 sono Cunningham e Anderson ( e questo spiega gli oltre 35 minuti di impiego a sera), Perkins in un contesto che non sia OKC o Boston sembra più dannoso che altro, Eric Gordon è ancora alla ricerca della pozione che gli fece strappare un contratto da 15 milioni l'anno, Norris Cole, al netto di qualche problema fisico di troppo, più di quei 10/12 ppg non può garantire e Tyreke Evans è la discontinuità fatta shooting guard. Tacendo, per carità, sul supporting cast.

Tuttavia è impossibile non far riferimento anche all'evoluzione del modo di giocare del nostro. Che, se da un lato, ha notevolmente arricchito il bagaglio di skills offensive di un giocatore mostruoso già di suo, dall'altro non ha certo reso facile l'organizzazione dei set offensivi di Alvin Gentry. Qualche numero, giusto per rendere l'idea. Questo è il Davis del 2014/2015 (24.4 e 10.2 a partita) e degli oltre 31 in 4 gare contro Golden State, la migliore difesa della passata stagione per punti su singolo possesso:

E questo, invece,è il Davis delle ultime 61 partite:

Cifre simili, ma messe su in modo diverso. Perché è impossibile non notare come la tendenza sia quella di giocare sempre più in allontanamento da canestro, nonostante si sia in possesso di qualità fisiche ed atletiche spaventose che gli consentirebbero di dominare contro chiunque abbia la sventura di ritrovarsi nel pitturato con lui.

Siamo di fronte ad un paradosso curioso: la completezza e la duttilità offensiva che Davis intende raggiungere (e sta raggiungendo) stanno quasi finendo per limitare le sue caratteristiche e quelle di un attacco che, nonostante i 103.1 punti di media e il 44.7% dal campo, potrebbe e dovrebbe fare molto di più. Se solo il suo giovane leader riuscisse ad alternare scientemente i momenti in cui liberare l'area a quelli in cui occuparla con tutta la propria presenza fisica.

Peccatucci veniali, di gioventù, correggibili con l'allenamento quotidiano e con la progressiva esperienza acquistata nel contesto più competitivo del mondo. Ma che, alla lunga, finiscono per fare la differenza tra una bella stagione da playoff e una buttata nel limbo della mediocrità nonostante il 50+20 di cui sopra, le 9 stoppate ai Grizzlies, il 5x5 agli Spurs.

Tuttavia è solo questione di tempo. Perché arriverà un giorno in cui Anthony Davis avrà il pieno controllo di tutte le sue facoltà: sotto canestro, in allontanamento, dalla media o in post, cambia poco. E, quel giorno, non vorremmo essere nei panni di chi se lo troverà di fronte.