A poche ore dalla partita inaugurale di Golden State contro New Orleans, un gran conoscitore delle cose di casa Warriors come Ethan Sherwood Strauss di Espn pubblicava un articolo dal titolo "Come l'Nba proverà a fermare Curry", in cui spiegava come tra alcuni tecnici della lega fossero già iniziate le grandi manovre di aggiustamenti e piani difensivi contro l'Mvp della scorsa regular season. Il riferimento era proprio al suo grande avversario di serata, quell'Anthony Davis candidato a succedergli come miglior giocatore stagionale, considerato un'arma a disposizione di Alvin Gentry per cercare di limitare lo Splash Brother numero uno. L'idea era quella di dirottare Davis su Curry, un po' come avvenuto in alcune fasi della scorsa serie di playoff, in cui il fenomenale ciglione era finito spesso sui cambi contro Steph, cavandosela dignitosamente. 

Davis contro Curry, dunque. O Ibaka contro Curry, in caso di sfida agli Oklahoma City Thunder. Ovviamente non in single coverage, ma solo in caso di coinvolgimento sul pick and roll, una delle armi più letali a disposizione di Golden State. Mossa già vista anche nelle ultime Nba Finals con Tristan Thompson ad eseguire per la difesa di Cleveland. Ebbene, ogni ipotesi di contenimento di Curry è saltata per aria dopo i primi dodici minuti di gioco dell'opening night caratterizzata dalla celebrazione della consegna degli anelli. Il numero 30 in maglia Warriors ha letteralmente scherzato con gli avversari, mettendo a segno 24 punti nel solo primo quarto, per poi arrivare in scioltezza a quota 40 a fine partita (preservato nel finale, quando i conti erano già stati chiusi). Triple dal palleggio, transizioni offensive che vedevano i poveri giocatori in maglia Pelicans non saper da che parte buttarsi, sulle linee di passaggio, a copertura del ferro o sulla soglia dell'arco. E mentre il panico si diffondeva tra Davis e compagni, la Oracle Arena esplodeva in un tripudio di esaltazione collettiva per il suo fenomeno dagli occhi di ghiaccio, autore di un vero e proprio one man show che consegnava ai Warriors una seria ipoteca sulla gara inaugurale.

La sensazione che Curry non sia ancora considerato per quello che è, ovverosia il giocatore più immarcabile dell'Nba contemporanea c'è ed è fondata. Si continua con insistenza a parlare di LeBron James, Kevin Durant, James Harden e compagnia - senza dubbio fuoriclasse dello stessa genìa - ma non si sottolinea abbastanza come contro Steph ci sia pochissimo da fare. Se sbaglia, sbaglia lui. Se decide di sparare dieci triple a gara, lo fa. Ha troppe armi per farlo, dal palleggio arresto e tiro, dalla ricezione in uscita dai blocchi, fino alla corsa in transizione, in cui si arresta misteriosamente con la stessa velocità con cui rilascia la palla. E poi c'è il fattore panico. Quando Steph è "in the zone", per usare un'espressione del gergo sportivo anglosassone, il suo ritmo di pallacanestro contagia positivamente i suoi compagni e atterrisce gli avversari, messi k.o. dall'ineluttabilità dell'uragano che sta per colpirli, con le arene Nba che captano il momento e si godono lo spettacolo (alla Oracle Arena il pandemonio è totale, per dirla alla Flavio Tranquillo). Tutto ciò non significa che i Warriors rivinceranno il titolo, o che Curry dominerà nuovamente come accaduto l'anno scorso, ma solo che sperare che la sua impronta sul basket Nba possa cancellarsi dopo un anno in cui si è sfruttato l'effetto sorpresa è pura, miope illusione. Anzi, la sensazione è che il meglio potrebbe ancora essere in arrivo.