Volendo dar credito all’immaginazione di chi vede la Western Conference come un selvaggio campo di battaglia in cui vige la legge del più forte e sottostando al clima da film tipicamente californiano, non possiamo non pensare al “Il buono, il brutto, il cattivo”, immortale capolavoro di Sergio Leone che meglio di ogni altro ha saputo imprimere su celluloide le mille sfaccettature del selvaggio west che fu. E visto che proprio tre delle quattro californiane Nba sono l’oggetto della nostra analisi, il paragone nasce spontaneo. Tre squadre, tre protagoniste, tre modi di intendere la pallacanestro: obiettivi diversi da raggiungere in un contesto che richiama le atmosfere dei duelli vinti da chi spara per primo. E, per dirla alla Tuco, a.k.a. Eli Wallach, “Quando si spara, si spara. Non si parla”.
IL BUONO – GOLDEN STATE WARRIORS
La perfezione non esiste e siamo d’accordo. Così come siamo d’accordo che Steve Kerr ci è andato molto vicino l’anno scorso, regalando al mondo una delle più memorabili macchine da basket su singola stagione nella storia recente della lega. E siccome anche sulla costa del Pacifico sembrano ubbidire allo “squadra che vince non si cambia” di boskoviana memoria, l’assalto al back to back non poteva che partire dagli stessi giocatori che, poco più di quattro mesi fa, alzavano il Larry O’Brien in una Quicken Loans Arena dal clima ossianico. Sdoganata, quindi, la small ball made in Oakland, la strada da seguire durante la trade agency era già stata tracciata: innesti pochi ma buoni, in grado di garantire una sufficiente continuità di rendimento a una filosofia di gioco fisicamente molto dispendiosa su entrambi i lati del campo. E, in tal senso, vanno inquadrati gli arrivi di Kevon Looney e Jason Thompson: il primo, se riuscirà a recuperare al meglio dai problemi all’anca (dai 4 ai 6 mesi di assenza ndr) rischia di essere lo Steal of the Draft 2015, il secondo incarna perfettamente la tipologia di lunga atipico preferita da Kerr, in grado di muoversi e muovere la palla all’interno di un sistema di read and react in grado di opporre nuove soluzioni (difensive e offensive) in base a quanto proposto dagli avversari di giornata. Rinunciato a Lee senza particolari problemi, paradossalmente le maggiori preoccupazioni sul mercato riguardano il futuro, con il rinnovo di Harrison Barnes che continua a non arrivare e con la trade agency 2017 che, da un punto di vista puramente ipotetico, potrebbe aumentare le tentazioni per uno Stephen Curry il cui contratto chiama dai 12 milioni attuali ai 13 della prossima stagione.
(Volete un squadra da battere? Beh eccola qui...)
Ma al momento, life is now, questi rappresentano dettagli, seppur fastidiosi, sulla via che conduce ad un repeat che sarebbe facilmente pronosticabile. Non fosse che, all’ovvia e nota difficoltà nel ripetersi, va aggiunta la concreta possibilità che le altre 29 squadre della lega abbiano passato gran parte dell’estate a escogitare un modo per mettere qualche granello di sabbia negli ingranaggi perfettamente oliati della Kerr truppen. Più facile a dirsi che a farsi, comunque: perché se non ci è riuscito fino in fondo un Lebron da 37.5 di media nelle finali (riscriviamo: 37.5 DI MEDIA contro la difesa che concede meno punti su 100 possessi della Nba) ignoriamo quale sia la forza competente ad opporsi ai Warriors. Che, da un punto di vista prettamente tecnico sono riusciti nell’impresa di fare del principale punto debole la prima virtù. La mancanza, dal punto di vista fisico, di un punto di riferimento pesante sotto i tabelloni ha fatto sì che i gialloblù incarnassero la filosofia del Barcellona di Guardiola: l’elemento più importante da sfruttare è lo spazio, una volta saputo occupare quello anche uno come Bogut può risultare più determinante di un Howard o di un Aldridge. Al resto, poi, ci pensano il Messi con il 30 (del quale risulterebbe persino noioso parlare ancora) e un supporting cast di primo livello. Perché gli Iguodala, i Green, i Thompson, i Barnes non li ha nessuno.
La sensazione è che se verranno evitate le sempre pericolose tagliole della Western Conference (soprattutto quelle di nero-argento vestite) a giugno la festa sarà ancora dalle parti del Golden Gate.
IL BRUTTO – LOS ANGELES LAKERS
Si può essere ottimisti dopo un 21-61 da consegnare ai posteri come un’entrata nella storia dalla parte sbagliata senza precedenti? Si, si può. Soprattutto se ti chiami Lakers e se, dopo i disastri susseguenti al post Jackson. Sei riuscito finalmente a tirar su una squadra con un minimo di criterio. Non che ci volesse molto, d’accordo, ma i gialloviola di Byron Scott versione 2.0 sembrano essere stati costruiti in maniera tale da evitare nuove umiliazioni alla storia della seconda squadra più vincente di sempre.
Da qui a parlare di playoff, però, ce ne vuole. Perché le endemiche carenze strutturali che si stanno trascinando da circa un lustro non possono certo essere lavate via con la prima campagna acquisti sensata e ancora vincolata al maxi contratto da 48 milioni di dollari elargiti a Kobe Bryant. Il motivo è semplice: sulla carta, i Lakers 2015/2016 sono una squadra discreta che, però, ha bisogno di tempo per trovare identità e amalgama. E nel Wild Wild West ci sono almeno una decina di squadre già pronte per un qualcosa di più di un problematico galleggiamento sopra quota 0.500.
L’uomo chiave della stagione, quello intorno al quale poi bisognerà ricostruire, sarà Julius Randle: e il fatto che sia stata immediatamente esercitata l’opzione per il terzo anno di contratto, nonostante la scorsa stagione interamente saltata a causa di un infortunio, spiega perfettamente l’intenzione del frontoffice di fare dell’ ex Wildcat la pietra angolare della rinascita. E non ce ne voglia il rientrante 24 al passo d’addio, se non con il basket giocato quanto meno con quello giocato ad Holliwood e dintorni. La frontline, vero tallone d’Achille da quando Gasol ha scelto saggiamente di migrare verso i più freddi lidi dell’Illinois, troverà in Roy Hibbert e Brandon Bass due discrete soluzioni da alternare in corso d’opera, soprattutto perché il mercato non proponeva niente di meglio a prezzo di saldo: anche se l’ex Pacers appare lontano parente di quello ammirato fino alle finali della Eastern Conference del 2014 e Bass, nonostante l’ottimo rapporto minuti giocati/punti e rimbalzi presi, tutto sia tranne che la PF in grado di spostare gli equilibri in un contesto ultra competitivo. Soprattutto se i primi ricambi sono quel Tarik Black che ancora deve dare un senso agli 800 mila dollari l’anno che percepisce dallo scorso febbraio e un Robert Sacre ultimissima scelta nelle rotazioni di Scott. Certo, ci sarebbe un Larry Nance Jr. che intriga per doti fisiche e atletismo, ma l’ex Wyoming è un’incognita che una squadra in ricostruzione non potrebbe permettersi. Così come non potrebbe permettersi il ritorno, seppur a cifre contenute, di un Metta World Peace che sembra messo lì giusto per fare allegria piuttosto che per fornire un credibile plus minus nei (relativamente) pochi minuti che avrà a disposizione: ma stiam sempre parlando dei Lakers e cadere in antichi errori è un attimo.
(Passato, presente e futuro dei Los Angeles Lakers)
Per questo, e per molto altro, quindi, l’arrivo più importante è quello di un Louis Williams che porterà nuova linfa a un gioco perimetrale colpevolmente abbandonato dai tempi dei (ne)fasti D’Antoniani. Un filo più problematico il discorso relativo al reparto guardie: detto di un Bryant che si è reso disponibile a giocare saltuariamente da ala piccola, con risultati che andranno interpretati di volta in volta, Clarkson e Young sono ancora ben lontani dall’essere considerati giocatori affidabili nonostante sporadici ventelli sparsi qua e là nel corso delle rispettive carriere. E non sarebbe nemmeno giusto affidare troppo responsabilità a un D’Angelo Russel che indubbiamente colpisce l’occhio ma che deve ancora dimostrare la necessaria durezza mentale per competere al piano di sopra. In tal senso, quindi, sarà essenziale capire quanto spazio sarà riservato a un Marcelinho Huertas alla meritata (e tardiva) occasione della vita: per l’ex Barca, diversamente da Russel, le incognite riguardano la tenuta in un contesto fisicamente opposto a quello europeo.
Una stagione dignitosa poco sopra le 40 vittorie è quanto di più realisticamente pronosticabile per questi Lakers. I quali non hanno fatto nemmeno troppo mistero di guardare alla prossima free agency quando, con l’aumento del salary cap e liberi dal contrattone di Bryant, si potrà realisticamente puntare a Kevin Durant. Nell’attesa, tuttavia, conviene smetterla di giocare al grido di “perdere e perderemo” e, magari, farsi trovare pronti in caso di crollo di qualche più credibile pretendente alla post season. Sai mai che ci scappi la sorpresa. E allora Mamba.
IL CATTIVO – LOS ANGELES CLIPPERS
Paul Pierce, da ultrà giallo viola dichiarato, ha passato un’intera carriera a giocare contro la squadra del suo cuore. All’inizio come prima entità cestistica di quella Boston non tanto amata a L.A., poi andando a scegliersi l’altra metà del cielo in bianco rosso e blu come ultima tappa della propria parabola sportiva. Il Cattivo per eccellenza, quindi. E non stupisce che Doc Rivers l’abbia (ri)chiamato nell’annata dell’ “ora o mai più”. Perché una cosa è sicura: la finestra in cui i Clippers possono riscattare tutti gli anni da esponente della più perdente cultura dello sport è questa. Peccato che coincida con la definitiva affermazione dei Golden State Warriors e con l’ultimo glorioso giro di giostra con cui gli Spurs vogliono omaggiare Duncan, Parker e Ginobili.
("Ora o mai più", olio su tela)
Eppure proprio questo clima da redde rationem potrebbe spingere verso il definitivo salto di qualità una squadra cui manca il classico centesimo per fare il dollaro vincente. Sulla carta, infatti, siamo al cospetto di una contender in piena regola: roster profondo e qualitativamente eccellente, giocatori al picco della carriera, uno o più leader in grado di prendersi le responsabilità nel momento decisivo o quando tutto non gira per il meglio, un allenatore abituato a navigare nei perigliosi mari dei playoff. E che non prescinde dal noto brocardo dell’asse play-pivot, soprattutto se il primo è Chris Paul e il secondo un DeAndre Jordan finalmente sgrezzato dalle pecche di gioventù. Se a questo aggiungiamo un Blake Griffin sempre più completo dal punto di vista offensivo (dimenticatevi lo schiacciatore selvaggio e monodimensionale di qualche tempo fa), un P-Square ancora in grado di garantire minuti di qualità, il solito Jamal Crawford pronto a far danni entrando dalla panchina e un Prigioni in grado di fornire quel playmaking conservativo necessario in determinati momenti di una stagione potenzialmente da 100 e più partite, abbiamo un gruppo in grado di giocarsela alla pari con chiunque. Soprattutto con un supporting cast che può contare su elementi del calibro di Josh Smith, J.J. Redick, Austin Rivers e il sempre utile Mbah a Moute. Trattandosi, però, di una squadra di Rivers, non poteva mancare l’incognita, il giocatore in grado, alternativamente, di combinare sfaceli o di vincerti la partita in un quarto a scelta: ai tempi dei Celtics era Nate Robinson, oggi è il turno di Lance Stephenson che ancora conserva quel minimo di credibilità grazie alle rezzanti stagioni con gli Indiana Pacers.
Ma anche per lui, come per tutti i Clippers, si tratta dell’ultima chiamata. Ora o mai più. Spurs e Warriors permettendo.